Franceschini e i sussidi

Franceschini e i sussidi

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Pochi giorni fa il neo segretario del Partito Democratico gettava nel circo politico l’ennesima proposta di riforma degli ammortizzatori sociali. Ormai non si contano più gli esponenti dei vari partiti politici che utilizzano lo specchietto delle allodole del nuovo “welfare state” per sviare l’attenzione e parlare d’altro. Questa volta è il turno di Franceschini che, per smarcarsi dall’assenza di proposte distinguibili dal governo, ha alzato la voce sulla riforma degli ammortizzatori. “Bisogna dare un assegno a tutti i nuovi disoccupati” tuonava il neoeletto segretario, convinto di avere detto la proposta giusta al momento giusto, un vero riformista di sinistra insomma. Purtroppo questa storiella della riforma degli ammortizzatori sociali è vecchia e non fa più presa. A turno tutte le forze poltiche la ricicciano fuori; “ci vuole una riforma vera, un nuovo welfare state per chi non ha paracaduti sociali, per chi non ha garanzie”, urlano in coro da destra a sinistra i simpatici personaggi che affollano l’assemblea legislativa nazionale. Purtoppo non sono gli unici.

Il dato che ne emerge è innanzitutto che si tratta di uno specchietto per le allodole. Ogni qualvolta ci sia un periodo di riorganizzazione del lavoro e delle forze produttive, invece di centrare l’argomento si pensa subito alle conseguenze. Insomma, non è importante la qualità del lavoro svolto, le ore lavorative, i livelli dei salari, la contrattazione. Non è neanche importante difendere i posti di lavoro, cercare di preservare il livello di occupazione, insomma ragionare su come evitare di far pagare sempre ai soliti le crisi economiche prodotte da altri soggetti. E invece ormai si da per assodato che tutto ciò che si può perdere si perderà (diritti, lavoro, ecc…), senza neanche bisogno di lottare, di difendere le nostre conquiste sociali. Si pensa al dopo, a come cercare di proteggere colui che una volta sfruttato per benino sul posto di lavoro, poi verrà licenziato. Proteggere non per chissà quale istinto umanistico o di vicinanza alla condizione del lavoratore, ma per spingere i consumi che sennò andrebbero a picco, visto che se la gente non lavora non può neanche spendere. Quindi, per consentire comunque a chi produce di garantirsi un mercato che più o meno compri anche in momenti di crisi, ci vuole il sostegno alla disoccupazione.

Insomma, una proposta sostanzialmente riformista ma soprattutto funzionale al sistema, che non risolve alcunchè ma che semmai aggrava la già difficile situazione. Un ragionamento sul lavoro come posto e come momento di lotta, come momento aggregante e come forza produttiva non si fa più, è stato completamente abbandonato. L’analisi della produzione ha lasciato completamente il campo alla ricerca della redistribuzione della ricchezza. E’ divenuto insomma superfluo parlare di come e di quanto si lavora, e soprattutto in che condizioni e a che livello di retribuzione. Salario e stipendio sono due parole completamente uscite dal lessico politico-economico. Quindi non parlare della produzione è funzionale al sistema, fa sostanzialmente il gioco di chi questa crisi l’ha prodotta. E infatti nessuno del centrodestra si è dichiarato contrario, ma al più fa ha fatto notare che in cassa non è rimasto più nulla, tantomeno finanziare operazioni del genere. Ma le operazione di sostegno al reddito le aveva già fatte anche questo governo, con l’introduzione della social card, rifiutata non in quanto espressione tipica del capitalismo compassionevole, ma perché i 40 euro al mese erano ritenuti pochi.

Soprattutto, altra grande vittoria del capitale, è stata mettere contro gli ultimi contro i penultimi, rendere il conflitto orizzontale, nella classe anziché fra classi. In sostanza, si è riusciti a mettere contro non il padrone e il lavoratore, ma il lavoratore atipico e precario nei confronti del lavoratore garantito e a tempo indeterminato. E qundi non si ricerca più una sorta di unità di classe, una omogenizzazione della opposizione sociale, ma ci si guarda con sospetto fra gli stessi lavoratori, ponendo differenze nella realtà nulle, come quella fra lavoratore garantito e precario. Certo, il precariato è una forma di sfruttamento ancora più disgustosa e ricattante, ma la sostanza non cambia. La qualità del lavoro è la stessa, lo sfruttamento è il medesimo con differenti gradi di accentuazione fra le varie tipologie. Ma chiaramente non è qui il cuore del problema.

Quindi nessun appoggio a Franceschini, che anzi dimostra sempre di più quanto il PD sia funzionale al potere economico attuale; notiamo però con dispiacere che nessuno più riesce ad uscire dalla diatriba che vede coinvolta solo l’ultima delle fasi della produzione, cioè il licenziamento del lavoratore, quando tutto il processo di accumulazione del capitale che si basa sullo sfruttamento del lavoro è lasciato cadere ignorato dai più. Cerchiamo di far tornare centrali dinamiche un pò troppo trascurate ultimamente, per evitare di farci trovare scoperti proprio la dove il sistema si riproduce all’infinito, e cioè sfruttando il lavoro umano.