Fukuyama e la fine della storia nelle rivolte arabe
E’ apparsa oggi, su Repubblica, una lunga intervista a Francis Fukuyama, il contestatissimo autore de La fine della storia e l’ultimo uomo. Nel libro, come ormai tutti sanno, si teorizzava la fine della conflittualità politica basata su un’alternativa al capitalismo. Con la caduta del mondo sovietico, le lotte (e le alternative, i programmi..) politiche da lì in avanti sarebbero stato tutte comprese all’interno non solo del capitalismo stesso come modello di sviluppo economico, ma comprese soprattutto all’interno della liberal-democrazia, lo strumento politico di governo dei cittadini più perfetto creato fino a questo punto. Per il futuro, dopo il crollo sovietico, ogni programma politico e in fin dei conti ogni ideale politico doveva partire da queste due basi: capitalismo e liberaldemocrazia. Una tesi come sappiamo contestatissima, anche se, col senno di poi di questi decenni, apertamente confermata nella realtà e nei programmi politici dei maggiori partiti al governo e all’opposizione dei maggiori paesi mondiali. L’unica falla del sistema teorizzato da Fukuyama era costituita dai paesi arabi, che esprimevano invece col passare del tempo non una tensione (inevitabile, secondo lo studioso) alla democrazia, ma piuttosto un ritorno in auge di masse proletarie intrise di religiosità, che producevano partiti politici islamici che avevano come obiettivo l’instaurazione di regimi teocratici. Al di là delle strutture politiche, in questi paesi le masse diseredate partorivano ideali politici di radicalismo islamico, non riconducibili al socialismo ma neanche integrabili nella democrazia occidentale. Era la smentita più evidente alla teoria generale di Fukuyama, che invece predicava un futuro in cui l’unica richiesta fondamentale delle masse sarebbe stata quella della democrazia liberale, la più vicina possibile al modello occidentale americano. Bene, leggendo l’intervista di oggi, lo studioso americano aveva gioco facile e vantarsi di aver predetto quello che pochi altri avevano intuito.
“Quello che sta accadendo nel mondo arabo è la migliore conferma della mia tesi del 1989 su la Fine della storia. Allora, quando osservai che la liberaldemocrazia era lo stadio più avanzato nell’evoluzione delle società umane, tra le obiezioni che ricevetti c’era proprio quella di chi mi rinfacciava l’eccezione araba. Ecco, oggi vediamo che quell’eccezione non esiste. I popoli arabi non sono diversi da noi, hanno le stesse aspirazioni, la stessa dignità.”
“ ..quello che vogliono [le masse arabe] non è molto diverso dalla democrazia intesa nel senso occidentale. E’ il trend di lunga durata che a suo tempo definii come terza via o terza ondata delle democrazie (…). Ora abbiamo la prova che i valori della liberaldemocrazia non sono esclusivi, non appartengono a un solo tipo di cultura.”
Questa intervista e queste citazioni aprono, secondo noi, un grosso problema di interpretazione di ciò che sta avvenendo o che è avvenuto nei paesi arabi. Come abbiamo già detto in altre analisi precedenti, non sembrano presenti in queste rivolte spiriti o istinti socialistici o comunistici tali da determinare l’esito di queste ribellioni. Quelli che fino a poco tempo fa partecipavano attivamente alle rivolte di piazza Tharir, e cioè i Fratelli Mussulmani, sono stati i primi a difendere la costituzione di Mubarak nel referendum costituzionale di due settimane fa (che è passato col 77% dei consensi e l’80% di partecipazione). Il governo tunisino provvisorio, appena insediato, ha subito avviato colloqui con i nostri ministri degli esteri e dell’interno per approvare un piano d’intervento e di contenimento dell’emigrazione dalle coste tunisine ricalcato sul trattato d’amicizia italo-libica in materia di immigrazione. La manifestazione del mese scorso delle donne per la rivoluzione in Egitto è stata duramente repressa dalle forze di polizia proprio a piazza Tahrir, luogo dove pochi giorni prima erano state tollerate manifestazioni di massa anti regime. E quelle donne poi, dopo essere state arrestate, hanno subito anche violenze fisiche nel tentativo da parte dei militari di improbabili “test di verginità”, rinchiudendo in carcere coloro che risultavano positive ai test.
Ecco, il discorso a questo punto dovrebbe focalizzarsi più che sulla Libia attaccata dall’occidente, sullo sviluppo e sulla piega che queste rivolte stanno prendendo nel corso del tempo. Ma non è neanche questo il punto che volevamo rimarcare in questo articolo, perché abbiamo bene in mente la differenza che passa fra chi si ribella e chi invece sfrutta il moto di piazza per i propri interessi politici, dunque non possono essere presi in toto i governi come rappresentanti politici delle rivolte avvenute (anche se l’evidente affievolimento delle proteste in queste settimane non fa ben sperare). Piuttosto, il problema è quello della natura di queste rivolte. Non essendoci state spinte comuniste o comunistiche preponderanti (e qui è importante cogliere la differenza fra spinte presenti e spinte preponderanti) rispetto alla popolazione che si ribellava, queste si sono risolte con una richiesta di maggiore democrazia all’interno di quei paesi. Ma se questo fosse vero (ci mettiamo sempre il condizionale perché purtroppo di elementi per analizzare la situazione se ne trovano sempre di meno), non staremmo di fronte ad una conferma delle tesi dell’ex-neocon Fukuyama? E’ possibile che delle masse impoverite e sfruttate, in lotta contro il potere costituito, lottino appunto “solo” per delle elezioni? Se si, se la rappresentazione di ciò che è avvenuto ricalca la realtà degli eventi, saremmo anche qui di fronte ad una anteprima storica, e cioè quello di masse che lottano per una nuova forma di sfruttamento, quella capitalista liberaldemocratica.
Cioè qui il punto da capire è essenzialmente uno solo: l’effetto prodotto da queste rivolte (cioè l’eventuale liberaldemocrazia) è la sintesi di un rapporto di forze in cui da una parte ci sono le forze del vecchio regime autocratico e dall’altra moltitudini rivoluzionarie, e dunque la liberaldemocrazia si presenta come mediazione di interessi; oppure la liberaldemocrazia (cioè elezioni, rappresentanza politica, media liberi..) è stata sin da subito la richiesta centrale di tutte le mobilitazioni? Forse il punto sta tutto qui. Nel primo caso, la liberaldemocrazia sarebbe una mediazione al ribasso per le masse arabe, e sarebbe anche un risultato accettabile rispetto alla base di partenza (autocrazia para-feudale), una tesi che sconfesserebbe le previsioni di Fukuyama. Nel secondo caso invece, se veramente quelle masse si fossero mobilitate solo per la richiesta di una forma di democrazia liberale, allora davvero la tesi dello studioso americano troverebbe la prima, concreta conferma alla sua tesi.