Gerusalemme est. Quello che le risoluzioni non dicono
«L’Unesco nega l’identità del popolo ebraico». «La risoluzione nega il legame religioso di Israele con il Muro del Pianto e il Monte del Tempio». «La decisione di cancellare le radici giudaico-cristiane dei luoghi santi di Gerusalemme è “l’inizio della fine”». «L’Unesco riscrive la storia: il Monte del Tempio e il Muro del pianto non sono luoghi legati all’ebraismo». Sono queste le affermazioni catastrofiche con le quali, nelle ultime due settimane, è stata descritta dai media una risoluzione approvata dall’Unesco – l’agenzia dell’Onu che si occupa di patrimonio culturale ed educazione – intitolata Palestina occupata e contente una condanna dell’occupazione israeliana. La risoluzione, proposta da sette paesi islamici (Egitto, Algeria, Marocco, Libano, Oman, Qatar e Sudan), è stata approvata con 24 voti a favore, 6 contro (Usa, Germania, Gran Bretagna, Lituania, Estonia, Olanda) e 26 astensioni, tra cui quella dell’Italia, della Francia e della Spagna.
L’approvazione di questa risoluzione è stata interpretata dal governo israeliano – e, di riflesso, dai media, sempre supini ai poteri dominanti – come un disconoscimento del legame ebraico con Gerusalemme est. Israele ha quindi sospeso la collaborazione con l’Unesco.
In molti, ovviamente, si sono stracciati le vesti anche in Italia. Per quanto riguarda i media, in prima linea si è trovato ovviamente «Il Foglio» che – non nuovo a iniziative di questo genere – ha invitato i suoi lettori a una manifestazione di protesta davanti alla sede dell’Unesco a Roma, parlando perfino di «Shoah culturale», nella consueta reductio ad Hitlerum che svilisce l’Olocausto e relativizza il nazismo, e di «rischio esistenziale». Altri giornali, come il «Corriere della sera» hanno dedicato alla questione pagine su pagine, ospitando interventi come quello dell’ex ministro delle Finanze israeliano Yair Lapid, che al solito sovrappone volutamente antisemitismo e antisionismo:
L’Unesco ha deciso di cancellare la storia, così com’è realmente accaduta, per ragioni politiche. […] L’ossessione di alcune organizzazioni delle Nazioni Unite nei confronti di Israele non è un segreto per nessuno. Nell’ultimo decennio il Consiglio per i diritti umani dell’Onu […] ha emesso 67 risoluzioni di condanna verso Israele. […] Il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha condannato Israele, un paese democratico che rispetta le leggi internazionali e protegge i diritti delle minoranze, più spesso di tutti gli altri paesi sommati. Potrei produrre mille altri esempi, ma credo di essere stato chiaro. […] Quando il consiglio esecutivo dell’Unesco voterà per ratificare questa risoluzione, i paesi che si sono finora astenuti saranno chiamati a esprimere chiaramente la loro posizione. A quel punto, potranno scegliere se schierarsi dalla parte della storia, dei fatti e della verità, oppure riconoscere i loro pregiudizi nei confronti degli ebrei. E questo spiega perché il nostro popolo ha bisogno di uno stato forte e libero.
Israele. «Un paese democratico che rispetta le leggi internazionali e protegge i diritti delle minoranze»: delle parole che fanno accapponare la pelle a chiunque conosca minimante la storia dello stato sionista. E, infatti, dei mille esempi che secondo lui potrebbe produrre, Lapid ne fornisce zero.
Sul «Fatto quotidiano», l’ex direttore dell’«Unità» Furio Colombo ha invece affermato che Renzi
dovrà anche essere in grado di spiegare perché il ministro degli Esteri italiano ha dato istruzione al rappresentante italiano presso l’Unesco di astenersi su un atto di negazionismo così esplicito ed estremo. Si tratta di una decisione che sposta l’Italia dalla parte di coloro che, sotto tutti i pretesti possibili hanno, come impegno principale in quell’area del mondo tormentata (come adesso) da spaventose guerre di Califfato, petrolio e religione, lo sradicamento di Israele che, semplicemente non deve esistere.
Negazionismo, dunque: un nuovo, velato, riferimento alla Shoah. Sullo stesso quotidiano, un confuso editoriale dello scrittore Alon Altaras ha invece suggerito che «mettere in dubbio il legame tra Gerusalemme e Israele» sia «come separare Roma dall’Italia». Grande spazio mediatico è stato dato anche alle parole del rabbino di Venezia Scialom Bahbout, che ha accusato l’Italia di collaborare – tramite la sua astensione – «a un atto terroristico che si propone di cancellare migliaia di anni di storia». Ammettiamo che il legame tra condanna dell’occupazione israeliana e terrorismo ci sfugge: semmai è proprio l’occupazione e il suo mancato riconoscimento a provocare risentimenti che possono sfociare anche in pratiche terroriste.
Anche il mondo politico italiano si è sentito in dovere di condannare l’Unesco: a partire da Luigi Di Maio del M5S, secondo cui la risoluzione Unesco allontanerebbe la pace. Dunque il problema è l’Unesco, non il colonialismo israeliano, la pulizia etnica di cui è ed è stato fautore, l’occupazione, la riduzione in cattività e in povertà di centinaia di migliaia di palestinesi.
Il più fiero alfiere delle posizioni sioniste è stato, però, come al solito Matteo Renzi, al quale non è andata giù l’astensione italiana: secondo il premier – che evidentemente finge di ignorare che l’Italia, che ancora non ha neanche riconosciuto lo Stato di Palestina, si è sempre astenuta sulla questione israelo-palestinese (ad esempio, nel 2011 sull’ingresso dello Stato di Palestina nell’Unesco), non certo per ostilità alla causa sionista – avrebbe preferito un voto contrario, al punto da chiedere spiegazioni al ministro degli Esteri Gentiloni. Allo stesso Gentiloni che ha come consigliere per la cooperazione internazionale e i diritti umani il giovane piddino Andrea Tobia Zevi, uno che allo Human Rights Council ha denunciato una presunta «ossessione per Israele» che sarebbe stata all’origine delle numerose risoluzioni internazionali contro il paese. Insomma, non certo un simpatizzante della causa palestinese.
Le parole di Renzi sono state chiarissime ed emblematiche del suo sionismo:
Una vicenda allucinante, ho chiesto al ministro Esteri di vederci subito al mio ritorno a Roma. È incomprensibile, inaccettabile e sbagliato. Ho chiesto espressamente ieri ai nostri di smetterla con queste posizioni. Non si può continuare con queste mozioni finalizzate ad attaccare Israele. Se c’è da rompere su questo l’unità europea che si rompa.
Le parole – con un registro tra l’altro più adatto a quello di un presidente di una squadra di calcio (“i nostri”?!) che a un presidente del consiglio – hanno ricevuto, ovviamente, l’immediato apprezzamento del governo israeliano.
Sembrerebbe, dunque, non aver avuto torto D’Alema, se è vero che, qualche mese fa, si lasciò sfuggire durante una cena che «Renzi è un uomo del Mossad. Bisogna sconfiggerlo». Del resto, colui che viene considerato il vero e proprio “guru” di Renzi, da anni suoi consigliere economico e «interprete principale della Renzinomics», è Yoram Gutgeld, deputato del Pd e commissario alla spending review. Gutgeld è nato a Tel Aviv e, oltre a essere senior partner della McKinsey (la multinazionale di consulenza manageriale) ed ex consulente di Marchionne, ha prestato servizio nelle Israel Defense Forces, per poi diventare tenente colonnello nei reparti regolari (leggi). Secondo alcuni, avrebbe persino messo mano a una riforma del Mossad (leggi 1 e 2 ). Insomma, uno di quelli con cui non ci farebbe particolarmente piacere andare a cena.
La vicinanza tra Renzi – e del suo governo, probabilmente il più filosionista della storia italiana – e Israele passa, inoltre, per l’altro suo consigliere fidatissimo (leggi 1 e 2), Marco Carrai, il teo-con che – qualche mese fa – sembrava essere a un passo prima dalla nomina a capo della cyber-security e poi a quella a consulente al Dis (l’organismo di coordinamento dei Servizi segreti) per Palazzo Chigi. Una scalata ai vertici dei servizi che sarebbe stata frenata dalla Cia (!!), scettica per gli rapporti stretti tra Carrai e Israele, sia in termini di amicizia sia di rapporti economici (leggi 1, 2 e 3). Nel 2012, già prima di diventare presidente del Consiglio, del resto, Renzi si era mostrato titubante sul riconoscimento della Palestina come stato e aveva, al contrario, affermato che «talvolta Israele eccede nella difesa, e dobbiamo dirlo, ma è tempo che la sinistra pronunci parole inequivocabili sul diritto di Israele di vivere senza minacce».
Ma cosa dice, davvero, il testo della risoluzione dell’Unesco? Al punto 3, dopo il consueto preambolo, la Risoluzione afferma «l’importanza che Gerusalemme e le proprie mura detengono per le tre religioni monoteiste». Al punto 36 viene ribadita «la convinzione affermata dalla comunità internazionale secondo cui i due siti sono significativi per Giudaismo, Cristianesimo e Islam». Non ci sembra, quindi, che sia negato alcun legame tra l’ebraismo e Gerusalemme. Nei punti successivi non si parla più della religione ebraica, ma dell’occupazione israeliana:
4. Condanna fortemente il rifiuto di Israele di implementare le precedenti decisioni UNESCO in materia di Gerusalemme […];
5. Condanna fortemente il fallimento di Israele, potenza occupante, nel cessare i persistenti scavi e lavori in Gerusalemme Est ed in particolare all’interno ed intorno alla città vecchia […];
8. Condanna fortemente l’escalation dell’aggressione Israeliana e le misure illegali nei confronti di Awqaf e del proprio personale, e nei confronti della libertà di culto e dell’accesso dei musulmani alla loro Moschea santa Al-Aqsa/Al-Haram AlSharif, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di rispettare lo status quo storico per cessare immediatamente tali misure;
9. Deplora fermamente i continui assalti alla Moschea Al-Aqsa/Al-Haram AlSharif da parte di estremisti israeliani di destra e delle forze armate, e spinge Israele, potenza occupante, ad intraprendere le misure necessarie a prevenire abusi provocatori che violino la santità e l’integrità della Moschea Al-Aqsa/Al-Haram AlSharif;
10. Denuncia fermamente le continue aggressioni Israeliane verso i civili, incluse figure religiose islamiche e sacerdoti, denuncia l’ingresso con la forza nelle varie moschee ed edifici storici del complesso Al-Aqsa/Al-Haram AlSharif da parte di ufficiali israeliani, […], e l’arresto ed il ferimento di musulmani in preghiera e di guardie di Awqaf; e spinge Israele, la potenza occupante, a terminare queste aggressioni e gli abusi che infiammano la tensione sul territorio e tra le religioni;
11. Disapprova la restrizione di accesso da parte di Israele alla Moschea Al-Aqṣa/Al-Ḥaram Al-Sharif durante l’ Eid Al-Adha 2015 e le conseguenti violenze, e chiede Israele, la potenza occupante, di cessare tutte le violazioni contro la Moschea Al-Aqṣa/Al-Ḥaram Al-Sharif;
12. Condanna fermamente il rifiuto di Israele di concedere visti agli esperti UNESCO incaricati per il progetto UNESCO per il Centro per i Manoscritti Islamici di Al-Aqṣa /Al-Ḥaram AlSharif, e chiede ad Israele di concedere apposito visto agli esperti UNESCO scienza alcuna restrizione;
13. Condanna il danno causato dalle forze israeliane, specialmente a partire dall’Agosto 2015, alle porte e finestre della Moschea al-Qibli all’interno del complesso Al-Aqṣa/Al-Ḥaram AlSharif, e riafferma, a tale proposito, l’obbligo di Israele a rispettare l’integrità, l’autenticità ed il patrimonio culturale della Moschea Al-Aqṣa/Al-Ḥaram AlSharif […];
25. Sottolinea con forte preoccupazione che Israele, la potenza occupante, non ha rispettato nessuna delle 121 risoluzioni del comitato esecutivo cosi come quelle del World Heritage Committee […].
30. Condanna i confronti militari all’interno ed intorno alla Striscia di Gaza ed i danni causati ai civili, inclusa l’uccisione ed il ferimento di migliaia di palestinesi civili, tra cui bambini, cosi come il continuo impatto negativo sulle competenze UNESCO, gli attacchi verso scuole ed altri edifici culturali e scolastici […];
31. Condanna fortemente i continui blocchi della Striscia di Gaza, che influiscono pesantemente il libero e fluente movimento di personale e aiuti umanitari cosi come l’intollerabile numero di vittime tra i bambini palestinesi, gli attacchi alle scuole ed altri edifici culturali, ed il rifiuto all’accesso all’educazione, e chiede ad Israele, la potenza occupante, di rendere agevoli immediatamente i passaggi.
Si tratta, quindi, non di un disconoscimento del legame tra l’ebraismo e l’area di Gerusalemme est, ma di una condivisibile – per quanto sia scarsa la simpatia che suscitano i paesi promotori – condanna all’occupazione militare e al colonialismo israeliano: in nessuna parte della risoluzione si afferma che i luoghi sacri siano soltanto per la religione musulmana, così come non si sostiene che questi luoghi non abbiano nulla a che fare con l’ebraismo. Per sostenere il contrario e spingere all’ennesima crociata sionista, dunque, i sionisti non possono far altro che affermare che questo disconoscimento sarebbe implicito nell’uso dei nomi arabi per la Spianata delle Moschee e i luoghi Gerusalemme Est citati nella Risoluzione (anche se non per tutti i luoghi, visto che nella risoluzione si utilizza la doppia denominazione per la Tomba di Rachele/moschea di Bilal Ibn Rabaḥ e per la Grotta dei Patriarchi/moschea al Haram al Ibrahim): si usano, infatti, solo i nomi di moschea di al-Aqsa e di Al-Ḥaram Al-Sharif per parlare del complesso che gli ebrei chiamano Har haBáyit (o Monte del Tempio) e solo quello di piazza Al-Buraq/piazza del Muro occidentale per quello che gli ebrei chiamano HaKotel HaMa’aravi (Muro del pianto). Ma ciò è del tutto normale, visto che gli estensori sono islamici: quanti italiani usano la denominazione croata di Rijeka per la città di Fiume o quella doppia? Il resto del mondo potrebbe pensare a proporre analoghe risoluzioni di condanna all’occupazione israeliana con duplice denominazione: polemiche del genere perderebbero del tutto senso.
La zona della Spianata delle Moschee, cioè Al-Ḥaram Al-Sharif, del resto, costituisce uno dei fulcri del conflitto israelo-palestinese dal 1967: essa è, infatti, il terzo luogo più sacro dell’Islam. Lì, dove sorgono le grandi moschee di ‘Umar e al-Aqsa, sarebbe avvenuta l’ascesa al cielo di Maometto: i primi musulmani pregavano, quindi, rivolti verso Gerusalemme. Tuttavia, lo stesso posto rappresenta anche il luogo più sacro per gli ebrei, il Monte del Tempio, dove sorgeva il secondo Tempio distrutto dai romani nel 70 d.C.: di esso è rimasto solo il cosiddetto muro del Pianto. Per i cristiani è, invece, il luogo della crocefissione e della passione di Gesù. La città vecchia di Gerusalemme, quindi, racchiude in meno di un chilometro quadrato i luoghi fondamentali delle tre grandi religioni monoteiste.
Gerusalemme, inoltre, è per gli ebrei la capitale dell’antico Regno unito di Israele, quello di Davide e Salomone: l’unica fonte per questa affermazione è la Bibbia. Non esistono, quindi, prove storiche dell’esistenza di questo Regno ma, per i sionisti, l’affermazione di Gerusalemme come proprio diritto ha assunto da sempre un ruolo di primaria importanza. Ad esempio, già negli anni Trenta, il movimento sionista ha iniziato a chiedere di trasferirvi il corpo del fondatore Theodor Herzl, morto nel 1904 e sepolto in Austria:
Nel 1935, una commissione nominata dai dirigenti dell’Organizzazione sionista mondiale arrivò alla conclusione che «il luogo di riposo definitivo di Herzl dovrà essere Gerusalemme, capitale della Palestina», anche perché «sia il sentimento nazionale, sia la congiuntura politica, nazionale e storica fanno di Gerusalemme l’unica scelta possibile». Il 18 agosto 1949, Herzl fu, quindi, tumulato in una collina ribattezzata Monte Herzl in occasione del primo funerale di stato della storia d’Israele. [Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese, p. 72]
Nonostante la nota risoluzione n. 181 dell’Onu (1947) prevedesse l’internazionalizzazione di Gerusalemme, nel 1948, dopo la guerra, la città fu divisa tra Israele (la cosiddetta “Città nuova”, la sua parte occidentale) e la Giordania (la cosiddetta “Città vecchia”, la sua parte orientale dove sorge la Spianata delle Moschee). La comunità internazionale continuò a richiedere l’internazionalizzazione della città, ma Israele già nel 1949 proclamò sua capitale Gerusalemme ovest. Durante la guerra dei Sei giorni del 1967, l’esercito israeliano invase e occupò anche Gerusalemme est, dichiarando tutta la città sua capitale eterna e indivisibile: i video che mostrano i soldati israeliani piangere sotto il Muro del pianto dopo aver conquistato la Spianata delle moschee sono indicativi di questo significato simbolico. Nel 1980, questo nuovo status di Gerusalemme fu unilateralmente inserito da Israele nella sua «Legge fondamentale», dichiarata dal consiglio di sicurezza dell’Onu priva di validità e considerata una violazione del diritto internazionale. Come ha scritto lo storico Gelvin,
il valore che gli israeliani attribuivano al territorio conquistato era di tipo ideologico. […] Gerusalemme ebbe sempre un valore simbolico particolare nell’ideologia sionista. In quanto capitale del regno di Davide e Salomone era, per così dire, un ricordo vivente dell’età dell’oro dell’antico regno d’Israele, semplicemente centrale nella narrazione storica sionista. [Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese, p. 236]
Per questo, il governo israeliano ha cercato continuamente, da allora, di separare politicamente la città dalla Cisgiordania, iniziando a circondare Gerusalemme Est con quartieri abitati da israeliani. Dal 1967, Gerusalemme Est è diventata luogo di residenza di circa 200.000 israeliani e i suoi confini sono stati estesi all’interno della Cisgiordania: la superficie di Gerusalemme Est è così passata dai 6,5 chilometri quadrati del 1967 agli oltre 70 attuali, andando a costituire oltre il 10% della Cisgiordania. La comunità internazionale considera questi insediamenti una violazione del diritto internazionale e della Quarta Convenzione di Ginevra del 1949, secondo la quale una potenza occupante non può trasferire parte della propria popolazione civile nel territorio che occupa. Tra il 1951 e il 2002, del resto, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha approvato ben 73 risoluzioni – di cui dieci con oggetto lo status di Gerusalemme – contro Israele e le sue politiche d’occupazione: nessuna di esse è mai stata rispettata dai sionisti. Solo nel 2015, le risoluzioni dell’Onu contro Israele sono state venti. Nessun paese, ad oggi, ha comunque la sua ambasciata presso Israele a Gerusalemme.
Anche i palestinesi, comunque, hanno da sempre attribuito una grande importanza simbolica a Gerusalemme: lo stesso Stato di Palestina – autoproclamato nel 1988 e riconosciuto dall’Onu nel 2012 – ha Gerusalemme est come capitale rivendicata.
L’importanza simbolica della Spianta delle Moschee, ufficialmente amministrata dalla Giordania dal 1967, è emersa, poi, in tutta la sua evidenza alla fine del settembre 2000, quando Ariel Sharon, scortato da oltre mille guardie del corpo, vi fece la sua famosa passeggiata: il suo intento era quello di mettere in difficoltà il governo laburista di Barak e di assicurarsi la leadership nel Likud. Questa passeggiata fu considerata dai palestinesi come una provocazione: il giorno dopo una loro manifestazione di protesta fu duramente repressa dalla polizia, che quattro manifestanti. La protesta si estese quindi a tutti i territori occupati, dando inizio alla Seconda Intifada. Sharon, invece, fu nominato primo ministro.
A oggi, tutti i checkpoint di ingresso alla Spianata delle Moschee sono controllati da Israele, che così limita pesantemente il diritto di preghiera dei musulmani. Per i palestinesi che arrivano fuori da Israele, recarsi a pregare lì significa, infatti, trascorrere molte ore nei checkpoint israeliani in condizioni igieniche pessime (leggi), e subire varie restrizioni all’ingresso della moschea. La riconquista della Spianata delle moschee è considerata come una priorità da molti palestinesi: per questo, una delle milizie palestinesi si chiama Brigata dei Martiri di al Aqsa. Nel 2015, i continui ostacoli posti da Israele all’accesso dei palestinesi alla Spianata ha acceso una nuova ondata di conflittualità nell’area.
Alla luce di ciò, sembra davvero difficile considerare un affronto a Israele le parole contenute nella Risoluzione Unesco di qualche giorno fa. Qualunque persone intellettualmente onesta, infatti, dovrebbe riconoscere che esiste una profonda differenza tra affermare il legame storico della religione ebraica con i luoghi sacri di Gerusalemme est e affermare i diritti sulla città di Israele, potenza occupante e colonizzatrice. Confondere questi due aspetti sarebbe come riconoscere che la Francia ha diritti sull’Algeria o l’Italia sull’Etiopia.
Questi due piani vengono invece volutamente sovrapposti dai sionisti. Si capisce, quindi, come il fulcro politico della vicenda sia racchiuso in parole come quelle contenute nell’intervista pubblicata su «Repubblica» al politologo statunitense Kenneth Schultz, che in modo sibillino giustifica l’aggressività di Israele:
Perché la ridefinizione di un territorio è strettamente legata all’identità nazionale. In questo caso, un’organizzazione internazionale in sostanza arriva a negare le connessioni tra Israele, il Monte del Tempio e il Muro del Pianto. È comprensibile che ciò provochi rabbia, negli israeliani: non solo vedono negati i loro legami religiosi a quei siti, ma la questione ha a che fare con l’affermazione della loro identità come popolo. Viene intesa come un tentativo di indebolire l’affermazione della sovranità statale di Israele.
Il clamore mediatico intorno a una interpretazione falsificante della risoluzione dell’Unesco, dunque, è chiaramente utile all’affermazione della narrazione storica sionista, che legittima le pretese israeliane. L’indubbio legame tra la religione ebraica e l’area della Spianata delle Moschee, infatti, NON è messo in discussione dalla Risoluzione dell’Unesco. Essa, però, viene criticata e rifiutata con l’intento di negare l’occupazione israeliana di Gerusalemme Est (e della Palestina) e di affermare la pretesa israeliana di averla come capitale unica ed eterna. Per questo, il governo israeliano ha ringraziato compiaciuto Renzi. E per questo il viceministro della Cooperazione regionale Ayooub Kara ha affermato in modo demenziale che i terremoti che hanno scosso in questi giorni il centro Italia costituiscono una punizione divina contro la sua astensione all’Unesco: Kara, infatti, non è neanche ebreo ma druso, quindi appartenente a un gruppo musulmano sciita, e quello che a lui e al suo governo non va giù è proprio la condanna dell’occupazione israeliana, che poco ha a che fare con l’ebraismo e la sua tradizione.
Il clamore intorno alla vicenda formalistica dei nomi, dunque, sposta il discorso da quella che è la sostanza della Risoluzione stessa: la condanna dell’occupazione israeliana. È questo che Israele e i suoi fans non riescono a digerire: ma dirlo apertamente significherebbe aprire un dibattito sull’occupazione e sulle sue politiche coloniali, aspetti su cui preferiscono tenere all’oscuro l’opinione pubblica mondiale. La questione nominalistica è, quindi, utilizzata come scorciatoia per svilire la Risoluzione in toto.
Per Israele, dunque, è più utile sviare il discorso dalla condanna della sua occupazione a questioni culturali-religiose (non diciamo storiche, perché ovviamente né la pretesa che Maometto sia asceso al cielo, né quella che ci sia stato un regno di Davide e Salomone sono fondate storicamente). Il riferimento ai legami religiosi, infatti, ha da sempre costituito la base delle pretese sioniste su quell’area: come ha affermato lo stesso Netanyahu in passato, «rivendicare radici tanto profonde, certificate nei testi e nelle tradizioni bibliche – precisamente nella Torah, la scritta e l’orale, nel cui costante studio si forgia il giudaismo – è per la repubblica d’Israele anche una strategia geopolitica». I libri sacri, però, non dovrebbero essere usati come fonti di legittimità perché sono miti fondativi creati ex post: ogni nazionalismo, anche quello sionista, ha bisogno di «inventare una tradizione». Come ha scritto lo storico Gelvin,
naturalmente, la ricostruzione sionista della storia ebraica presenza qualche smagliatura; ma è una caratteristica comune dei movimenti nazionalisti […]. Dopotutto la Palestina è stata ricordata nei testi e nei rituali ebraici per secoli, e per secoli gli ebrei riuniti in occasione dell’annuale cena cerimoniale della loro Pasqua si sono augurati: «Il prossimo anno a Gerusalemme». C’è, però, una grande differenza tra rammemorare Gerusalemme e intraprendere un’azione di insediamento su ampia scala per poi rivendicare l’autodeterminazione degli ebrei di Palestina. Al pari dei movimenti nazionalisti che li hanno preceduti e seguiti, l’operazione dei sionisti è consistita nel leggere la propria storia in maniera selettiva per trarne conclusioni che sarebbero risultate incomprensibili ai loro antenati prima dell’avvento dell’età moderna. La narrazione sionista della vicenda storica del popolo ebraico […] conferisce un posto d’onore agli antichi periodi di unità politica e di dominio all’interno della Palestina. [Gelvin, Il conflitto israelo-palestinese, pp. 10-11]
Il nocciolo di questa questione è stato intelligentemente evidenziato, invece, da Moni Ovadia – come al solito una delle poche voci ebraiche fuori dal coro, autore di un bell’editoriale sulla questione pubblicato sul «Manifesto» –, in un’intervista a «Repubblica»:
Attaccarsi a queste cose, come fa Netanyahu, è propaganda nazionalista. Lui è un uomo di destra che parla di un presunto “diritto divino” degli ebrei su quella terra, e in nome di ciò mette in discussione la legittimità di esistere dei palestinesi. I quali sono stati vessati, espropriati delle proprie terre, vivono in una prigione a cielo aperto, isolati dalla comunità internazionale. Ad oggi ci sono 500mila coloni che si sono insediati illegalmente in territori che non gli spettano. Si chiama occupazione. Ci rendiamo conto?