God Bless America
Da venerdì scorso, se sei un omosessuale statunitense può sposarti con il tuo partner. Se sei un giovane nero omossessuale statunitense, però, non è detto che raggiungerai l’età in cui ti verrà il desiderio (o avrai la possibilità) di sposarti: già il tasso di mortalità infantile dei bambini nati da madri afroamericane, infatti, è doppio rispetto a quelli nati da genitrici bianche, mentre la terza causa di morte tra i neri afroamericani è l’omicidio (9,7%; 14,1% se si considerano solo i giovani maschi neri).
Se sei un giovane omosessuale nero statunitense e raggiungi l’età per il matrimonio, forse non potrai comunque contrarlo: in un quarto degli stati degli Usa, infatti, il 10% dei giovani afroamericani è rinchiuso in carcere. Secondo altre stime, un terzo dei ventenni di colore statunitensi è in prigione o in libertà vigilata: il tasso d’incarcerazione dei giovani neri è di 12.603 per centomila, mentre per i loro coetanei bianchi è di 1.666. I neri delinquono di più? Probabilmente no, se è vero che pur essendo il 13% dei consumatori di stupefacenti, essi sono il 35% degli arrestati, il 55% dei processati e il 75% di quelli che stanno scontando una pena per possesso di droga.
Se sei un giovane nero omosessuale statunitense e ti sposerai, dovrai comunque tenere presente che la tua aspettativa di vita è di 5 e anni e mezzo inferiore a quella di un tuo coetaneo bianco: avrai, dunque, molto meno tempo per testare gioie e dolori del matrimonio.
Se sei un giovane omosessuale statunitense, inoltre, devi sapere che hai molte più possibilità di trovarti un partner bianco, piuttosto che un partner nero tuo coetaneo. Un recente articolo di Glen Ford, il direttore esecutivo di direttore esecutivo di Black Agenda Radio, ha parlato della letterale “sparizione” di oltre un milione e mezzo di uomini neri statunitensi: mentre, nella fascia d’età 25-54 anni, tra i bianchi si contano 99 uomini ogni 100 donne, infatti, tra i neri le donne sono circa un milione e mezzo in più degli uomini. Di essi, secondo gli analisti, circa 600mila sono in carcere, mentre gli altri sono morti prematuramente, a causa di malattie, incidenti e, circa 200mila, omicidio. Come scrive Ford,
la vita delle persone di pelle nera negli Usa non inizia con bizzarri squilibri tra i sessi. Non c’è un divario di genere tra i neri durante l’infanzia. Nascono circa lo stesso numero di ragazzi e di ragazze e il rapporto rimane stabile fino all’adolescenza, quando inizia una spietata guerra di logoramento ai danni dei maschi neri. In quali termini è possibile descrivere questo fenomeno se non come una guerra, in cui 600.000 persone sono detenute in carcere durante gli anni più produttivi della loro vita, altre 200.000 periscono per cause violente, mentre la maggior parte giace sotto terra, falciata da incidenti e malattie che colpiscono con molta più clemenza i bianchi?
Tra le cause violente, non va dimenticata l’alta probabilità di essere uccisi dalla polizia. Solo nei primi cinque mesi di quest’anno, infatti, le forze dell’ordine negli Usa hanno già ucciso 385 persone: i due terzi degli uccisi tra le persone disarmate sono nere. Eclatanti i casi dell’ultimo anno, tanto a Ferguson quanto a Baltimora, che sono stati all’origine di una forte reazione delle comunità afroamericane, con giorni e giorni di proteste e guerriglia urbana.
Se ciò non bastasse, si può gettare uno sguardo alla situazione patrimoniale e lavorativa dei bianchi e dei neri: il numero dei disoccupati tra i secondi è il doppio di quello dei primi, che inoltre guadagnano in media oltre il 21% in più e che sono 4,3 volte più ricchi (leggi).
La disuguaglianza, tuttavia, non riguarda solo gli afroamericani: è sufficiente dare un’occhiata all’agile volumetto del 2013 di Bruno Cartosio, La grande frattura. Concentrazione della ricchezza e disuguaglianze negli Stati Uniti (Ombrecorte 2013). I dati in esso contenuto mostrano una situazione allarmante: uno statunitense su sei vive in condizioni di povertà e, in base ai criteri recentemente elaborati dall’Ufficio del censimento, nel 2010 i poveri statunitensi erano quasi 50 milioni (16% della popolazione; tra gli afroamericani e gli ispanici si sale fino al 25%). Secondo uno studio del 2012 del National Poverty Center dell’Università del Michigan, tenendo presenti i criteri che individuano la povertà estrema nel mondo (un reddito di due dollari al giorno per ciascun componente del nucleo familiare), ben 1.460.000 famiglie e 2.800.000 bambini vivevano in queste condizioni negli Usa nel 2010 (p. 54). Di contro, tra il 1979 e il 2007, al 10% più ricco della popolazione statunitense è andato il 91,4% della crescita dei redditi, di cui il 60% all’1% dei superircchi (p. 55). I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri: la polarizzazione prevista da Marx trova negli Usa una delle sue più aderenti realizzazioni.
Gli effetti di queste disuguaglianze sociali sono, ovviamente, tragici, tanto più in un paese con un sistema sanitario in mano ai privati: gli Usa, infatti, sono uno dei pochi paesi a non offrire ai suoi cittadini una copertura sanitaria universale, nonostante la tanto sbandierata riforma del 2010 promossa da Obama. Essa, ben lontana dal tendere verso la costruzione di un sistema sanitario universale, conteneva anzi misure come le sanzioni per i cittadini che non acquistano una polizza assicurativa. Se teniamo presente che, nel 2008, il 46% delle famiglie con reddito al di sotto del doppio della soglia di povertà erano privi di assicurazione, mentre sopra la stessa soglia lo era il 16%, capiamo come questa riforma sia un esempio come un altro di come negli Usa i poveri vengano puniti in quanto tali e i loro comportamenti sociali criminalizzati. Secondo i dati più recenti, il 37% dei pazienti statunitensi ha difficoltà a pagare le prestazioni mediche e spesso rinuncia alle cure a causa dei costi, anche tra coloro che hanno un reddito alto (17% rispetto al 39% dei più poveri).
Alla luce di questi dati dovrebbe essere chiaro come l’«apertura» – per sentenza della corte suprema e non per decisione politica o iniziativa legislativa o risultato di un percorso di lotte – ai matrimoni gay costituisca una chiaro tentativo di pinkwashing, al pari dell’organizzazione del Gay Pride di Tel Aviv promossa dal ministero degli esteri israeliano all’interno di un’operazione di marketing in cui ricevette suggerimenti dagli esperti statunitensi. Tra il 2011 e il 2012 questa iniziativa – di cui in Italia fu alfiere il solito Roberto Saviano – aveva suscitato molte polemiche e in diversi articoli (leggi) si era denunciata «la cooptazione dei bianchi gay da parte delle forze politiche anti-immigrati e anti-musulmane in Europa occidentale e in Israele»: oggi, estendo il discorso, vi possiamo aggiungere anche gli Usa. Il termine pinkwashing, del resto, deriva dall’inglese whitewash, «imbiancare, coprire, mascherare», che in senso figurato indica i tentativi di nascondere la verità su argomenti, persone, organizzazioni o prodotti per farli apparire migliori di quanto siano: nonostante la nuova facciata – però – dentro il sepolcro imbiancato permane il problema. Problemi che rimangono anche quando la coloritura della nuova facciata è pink, «rosa», grazie all’attenzione per i diritti di donne e omosessuali.
Stati che promuovono la discriminazione sociale all’interno e l’oppressione e lo sfruttamento all’esterno, in questo modo, ripuliscono la loro immagine grazie alla presunta attenzione prestata ai diritti civili: per la maggior parte dei casi, quelli degli omosessuali o delle donne (ad esempio, attraverso l’introduzione di meccanismi «anti-discriminazione» come le quote rosa). Il timing della sentenza della corte suprema, del resto, non lascia adito a dubbi: essa è stata pronunciata il 26 giugno, appena due giorni prima del 28, la giornata mondiale dell’orgoglio LGBTQ che ricorda i moti di Stonewall del 1969. Il tentativo di pinkwashing, evidentemente, ha funzionato: sia sufficiente contare quanti su Facebook – il più rapido ed efficace strumento per capire gli umori delle persone – hanno tinto la propria immagine del profilo con i colori della bandiera arcobaleno usata dal movimento di liberazione omosessuale: si è trattato, del resto, di un’iniziativa promossa dallo stesso social network, che ha reso disponibile un servizio per colorare le proprie foto in questo modo, e non di una spinta spontanea proveniente dai suoi utenti. Ed è così che anche il ricordo di un momento di rottura come la rivolta di Stonewall – quando a New York si ebbero dei violenti incidenti, che durarono giorni, tra gli omosessuali e la polizia che aveva fatto ingiustificata irruzione in uno dei loro locali – è stato depotenziato integrandolo e sovrapponendolo con l’odierna politica degli Usa di Obama e con la sua narrazione mediatica. La memoria di quella giornata, quindi, è stata confusa con l’esaltazione di una sentenza della corte suprema: come a dire che, anche se con ritardo, gli Usa arrivano alle conquiste democratiche e garantiscono ai loro diritti a tutti i loro cittadini. «God bless America», dunque, la nazione democratica più democratica di tutti, il faro della modernità che anche questa volta ha dimostrato la superiorità morale e civile sua e – perché no? – di tutto il mondo occidentale liberale e liberista, soprattutto nella contrapposizione con un mondo islamico rappresentato sempre in termini di sessismo e omofobia. O forse no?
Già nel 2007, la studiosa Jasbir K. Puar ha evidenziato una normalizzazione e una nazionalizzazione dei gay e delle lesbiche messa in atto dal liberalismo, accusando così una parte importante del movimento omosessuale statunitense di aver contribuito alla riconfigurazione dell’imperialismo dopo l’11 Settembre e al rafforzamento di una nuova carta geopolitica del mondo, in cui da un lato ci sarebbe un Occidente tollerante e liberale e dall’altro un Islam sessista e omofobo.
Sia chiaro: i diritti civili è meglio che ci siano, piuttosto che non ci siano. La sentenza della corte suprema migliora indubbiamente la vita di milioni di persone, garantendo il riconoscimento di un diritto fondamentale: quello all’uguaglianza al di là dell’orientamento sessuale. Quello che bisogna chiedersi, tuttavia, è cosa significhi vedersi garantiti i diritti civili in una società tanto diseguale a livello sociale e se ha davvero senso festeggiare – elogiando di fatto la «democraticità» del paese – la sentenza della corte suprema. Si può parlare di «vittoria» dei diritti in una società tanto escludente? Si può pensare che il riconoscimento dei diritti di qualcuno possa avere senso se non avviene all’interno di una battaglia per i diritti di tutti? È giusto ed efficace separare la lotta per i diritti civili dalla lotta di classe e da quella antirazzista?
A ben guardare, non solo non è giusto né efficace, ma è anche controproducente. La pubblicità e l’attenzione mediatica su questo tema – che dimostrano ancora una volta la subalternità culturale rispetto agli Usa: del resto, sono 21 i paesi che, con molto meno clamore e senza profili di Facebook arcobaleno, già riconoscono giustamente questo diritto – non fanno altro che migliorare l’immagine internazionale degli Stati Uniti, al pari della guerra pretestuosamente condotta per consentire alle donne afghane di togliersi il velo o dell’elezione di un presidente nero come Obama o, ancora, del ruolo di potere «concesso» ad alcune donne, da Madeleine Albright a Condoleezza Rice (donna e nera) a Hillary Clinton, prossima candidata democratica alle presidenziali. Una versione estesa – concedeteci la metafora – di quelli che Malcom X definiva «negri da cortile» che, integrando pochi esponenti provenienti dalle classi agiate dei gruppi storicamente oppressi, fa passare in secondo piano le politiche imperialiste e oppressive – verso l’interno e verso l’esterno – di cui gli Usa sono fautori. Politiche che, tuttavia, non sono scomparse ma, anzi, si sono aggravate. Anche qui è forse utile richiamare un passo di Cartosio, che ben descrive la società statunitense:
Quando la razza e il sesso hanno smesso di essere gli ostacoli più immediatamente riconoscibili alla partecipazione, altre forme di esclusione le hanno progressivamente integrate o hanno preso il loro posto […]. Gli esclusi di una volta rimanevano esclusi e discriminati; non più per motivi scopertamente razziali, ma per quelle ragioni di collocazione sociale che l’appartenenza razziale (e, meno, sessuale) avevano comunque contribuito a determinare. […] La novità degli ultimi decenni è stata l’assimilazione nei ranghi degli emarginati di percentuali sempre più alte di uomini e donne bianchi. La società dei “due terzi” di cui si discuteva negli anni del neoliberismo di Reagan, in cui il terzo inferiore della piramide sociale viene lasciato al suo destino dalla politica e dall’economia, ha cambiato in parte la sua composizione e la sua estensione, ma non ha mai cessato di esistere. (p. 72)
La chiave della questione è probabilmente proprio nel concetto di «riconoscibilità»: quando un problema non è più riconoscibile perché velato dagli effetti di operazioni di maquillage politico come il cosiddetto pinkwashing la situazione non può che peggiorare.
Il problema non è la giustezza – indiscutibile – della legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, quanto piuttosto la scala di priorità e il contesto di lotte e rivendicazioni in cui essa viene inserita. Il riconoscimento dei diritti civili – per quanto apprezzabile – non comporta da solo alcun automatico avanzamento dei rapporti tra le classi: quando è la manifestazione esteriore di un tentativo di pinkwashing, anzi, è un ostacolo a ogni prospettiva conflittuale, perché appiattisce la possibilità di critica e di opposizione alle politiche del paese che la promuove. Del resto, come ha scritto Cartosio nel volume citato, il capolavoro politico delle classi dirigenti statunitensi è stato quello di «togliere redditi, servizi, protezioni sociali e rappresentanza politica e sindacale alle fasce deboli della società riuscendo a impedirne la sollevazione» (p. 15). Difficile pensare che il riconoscimento della legittimità dei matrimoni tra persone dello stesso sesso non faccia parte di una campagna propagandistica mirante a evitare, per il maggior tempo possibile, questa sollevazione.
Non c’è niente di male, dunque, a ritenere un passo in avanti l’estensione di un diritto civile. Bisogna però stare attenti a valutare tutte le conseguenze di questo progresso: subordinare la lotta di classe e di razza a quella per i diritti civili, pensare che l’ottenimento dei secondi senza partire dalla prima, è il più grande favore che si può fare agli stati oppressivi e imperialisti. «Think before you pink» era l’invito rivolto da uno dei movimenti contro un’altra forma di pinkwashing, quello che metteva in discussione la validità e l’efficacia di alcune campagne contro il cancro al seno basate sulla vendita di nastrini rosa, impropriamente utilizzati da alcune grandi aziende per legare i propri prodotti alla lotta al tumore al seno e migliorare in questo modo la loro immagine. Oggi non possiamo far altro che dire «think before you rainbow» (su facebook).