Grande la confusione sotto il cielo mediorientale
Capire, interpretare concretamente il mondo che ci circonda, le veloci e profonde trasformazioni che si dipanano sul piano internazionale, le ricadute nel nostro cortile, nel fortino occidentale, sono un attributo sempre più necessario per una sinistra anticapitalista all’altezza della situazione maledettamente complessa che abbiamo di fronte. Il cammino presente e futuro è scivoloso, pieno di insidie, date in parte dalla narrazione tossica dell’oliata macchina della disinformazione, che va sempre smascherata. Ma non c’è solo il dispositivo preventivo del nemico di classe a determinare una condizione di profonda minorità di un punto di vista internazionalista.
Mentre nel mondo pre-1989, pur con tutte le eccezioni e le contraddizioni del caso storico, schierarsi, era (o sembrava) più agevole e automatico, si incasellava dentro una tradizione ideologica, un campo politico di appartenenza, di mentalità organizzative, da molti anni tutto questo è venuto profondamente meno lasciando spaesati e disorientati.
Non è un caso che una certa sinistra radicale, da molto tempo, nelle vicende del grande conflitto mediorientale si è persa in una serie di ragionamenti confusi, contorti, sempre più criptici man mano che la situazione s’ingarbugliava, “anarco-machiavellici”, se così si può dire, fino ad arrivare ai manifesti sostegni alle quinte colonne dei vari imperialismi in competizione nell’area.
L’esigenza di un nuovo incontro sulle vicende internazionali, con riferimento particolare a quello che è stato definito il “grande disordine mediorientale”, è allora necessario. Sviscerare da un punto di vista di classe e originale, non schiacciato su posizioni ideologiche precostituite, l’attuale, apparente, bellum omnium contra omnes mediorientale, è sempre più decisivo per comprendere la nostra società, non solamente quella tra il Tigri e l’Eufrate. Non partiamo da zero nell’esame della situazione: nelle scorse settimane ci siamo sforzati di produrre un ragionamento approfondito che indicasse i protagonisti della vicenda, gli interessi economici e politici in corso e il ruolo neocoloniale di alcuni paesi europei. Perché la difficoltà, qui e ora, è smarcarci da due letture contrapposte ma ambedue incapaci di cogliere la complessità della situazione in termini oggettivi: da una parte la visione geopolitica schiacciata sullo “scontro tra potenze” che taglia fuori le popolazioni e i conflitti sociali interni allo stesso mondo arabo; dall’altra la tendenza servile alla lettura mainstream, che individua ogni governo preso di mira dai media occidentali come “regime” e “nemico assoluto”, di conseguenza cedendo culturalmente e politicamente ogni elemento critico in favore dell’obiettivo comune (dell’imperialismo), cioè la pacificazione di intere regioni del mondo mascherata da “ritorno alla democrazia” o, peggio ancora, “liberazione dal tiranno”.
Diciamo anche che questo dibattito cade in un momento molto particolare per il nostro paese. Infatti si stanno scaldando i motori dei nostri bombardieri, le forze speciali di aggressione dell’Italia, della Francia, dell’Inghilterra, degli USA stanno per portare l’attacco alla Libia, con il consueto alibi di intervento antiterrorismo, per sconfiggere Daesh, riportare l’ordine nella regione e imporre alle varie fazioni di sottomettersi all’ordine occidentale.
Come interpretare il silenzio generale del risicato arcipelago progressista, fino ad arrivare alla sinistra radicale o antagonista, su quello che si sta preparando in Libia e sul nostro ruolo di paese in posizione avanzata nella prossima guerra di aggressione? Questa volta non saremo soltanto la base logistica per le incursioni aeree, o l’oppurtunistica italietta del “partite voi che vi appoggiamo”. Questa volta l’Italia imperialista giocherà un ruolo militare oltre che politico. Su questo, a parte la manifestazione del 16 gennaio scorso, poche voci si levano per denunciare l’ennesima avventura neocoloniale del nostro paese, sul fatto che a distanza di un secolo (1911) dalla prima invasione italiana della Libia e dalla nostra pluridecennale e feroce occupazione coloniale, ci prepariamo di nuovo a occupare quella terra per ripristinare l’ordine dei nostri interessi petroliferi e geopolitici. Siamo un paese in guerra, che partecipa pienamente alla spartizione di una torta “geostrategica” sempre più ristretta, e che peraltro ha già avviato la macchina del moderno minculpop che chiamerà alla mobilitazione delle coscienze contro il “pericolo jihadista”, alla necessità di salvaguardare la nostra sicurezza, le nostre frontiere dalla calata “terroristica”, “migrante”, “povera” e via dicendo. Per queste e altre ragioni abbiamo preferito oggi far discutere personalità diverse, non schiacciate su di un’unica visione delle cose, ma capaci nel corso degli ultimi anni di aver svelato parzialmente la natura politica dell’attuale disordine mediorientale, assumendo un punto di vista politico complessivo, anche laddove non collimante con i nostri ragionamenti. Poco ci importa, di fronte alla necessità di comprendere lo stato dell’arte dell’immensa periferia produttiva dell’Occidente. Ci vediamo alla Sapienza, facoltà di Fisica, aula Amaldi, alle ore 17.00.