Guerra, Infotainment, “No-Putin Pass” e mobilitazioni
Dal 24 febbraio e nel giro di pochi giorni l’aria politica e culturale di questo paese si è fatta velocemente irrespirabile, saturata da una propaganda di guerra di cui facciamo fatica a ricordare un precedente recente. Nell’apparato dell’infotainment italiano la caccia all’untore che aveva caratterizzato tutto il periodo della pandemia è stata rapidamente sostituta dalla stigmatizzazione del filoputiniano. La compagnia di giro che per oltre due anni aveva riempito i talkshow sul Covid si è prontamente riconvertita in commentatori di guerra, mentre generali e analisti geopolitici hanno soppiantato i virologi. In questo frame bellicista chiunque sollevi un dubbio di fonte alla narrazione binaria della lotta del bene contro il male, propinataci a reti unificate, è immediatamente additato come “giustificazionista”, chiunque provi a problematizzare e ad argomentare che la storia non è iniziata 10 giorni fa, o addirittura ad indicare nella Nato il convitato di pietra di questa guerra, viene immediatamente tacciato di essere un “cripto-russo”.
Una conventio ad excludendum tra la destra e la “sinistra” dell’arco politico parlamentare che colpisce non solo i “pericolosi” estremisti di sinistra o gli “imbelli” pacifisti, ma che coinvolge anche quei pezzi del mondo della cultura, del giornalismo e dell’accademia che si ostinano a non omologarsi. E così, mentre si denuncia la repressione della libertà di stampa e di manifestazione operata dall’apparato putiniano in Russia, qui da noi si stilano liste di proscrizione dei cosiddetti “Putinversteher” (neologismo tedesco introdotto dal solerte Riotta per indicare chi se la intende con Putin), si oscurano siti e pagine social (in nome della lotta alle fake news, of course), si impone a docenti universitari di non esporre pubblicamente il proprio pensiero, fino ad arrivare a pretendere la pubblica abiura da parte di quei cittadini russi che non abbiano già preso una posizione netta. Se ci viene concessa un’iperbole, ci verrebbe quasi da dire che da qui all’imposizione di un “No Putin Pass” poco ci manca.
Sbaglieremmo però a riconoscere in questo atteggiamento solo il classico riflesso pavloviano filoatlantista a cui pure ci avevano già abituato l’aggressione alla Jugoslavia o all’Iraq. Sicuramente c’è anche, e forte, pure questa componente. Così come rimane, nemmeno troppo velato, il doppio standard con cui l’Occidente ha sempre guardato al mondo. Quello per cui i morti e le atrocità valgono solo quando a provocarli sono gli altri. Quello per cui le bombe del nemico producono stragi mentre le nostre sono sempre intelligenti e chirurgiche. Quello per cui le vittime civili si contano in maniera diversa a seconda del colore della pelle o a seconda della cultura in cui si riconoscono, come nel caso del Donbass. Questa volta però ci pare di poter dire che alla base di questa ipocrisia collettiva ci sia, quasi inconscia, anche un’altra componente che potremmo quasi definire “psicologica”. Più che i crimini dell’esercito russo è infatti la fine del “privilegio” eurocentrico a turbare il sonno dei commentatori occidentali. È il dover prendere atto, impotenti, di non possedere più il monopolio della violenza globale. L’indignazione e la costernazione per la democrazia violata sono solo il packaging ideologico ed emotivo con cui questa “impotenza” viene fatta accettare alle rispettive opinioni pubbliche.
Come abbiamo provato a spiegare in un post precedente questa guerra, comunque vada a finire, segna infatti un punto di svolta nella storia mondiale. È la manifestazione atroce e drammatica della trasformazione irreversibile di quegli equilibri che erano usciti dalla fine della guerra fredda e che avevano spinto a parlare di “fine della storia”, tratteggiando l’avvento di un mondo unipolare a egemonia statunitense. Ebbene, se c’è qualcosa che questa guerra ci sta insegnando è proprio che la storia non è finita e che quell’ordine mondiale prodotto dalla sconfitta del campo socialista sta andando in frantumi sotto la spinta delle stesse leggi che regolano il modo di produzione capitalista. Solo vent’anni fa l’invasione dell’Ucraina come risposta all’allargamento della Nato sarebbe stata impensabile. Non c’è ovviamente un giudizio di valore in questa constatazione, come non può essercene in una fotografia che si limita a registrare il panorama che cambia, quanto piuttosto la presa d’atto che la cornice geo-economica e ideologica in cui saremo chiamati a fare politica (sempre che ne avremo le capacità) è irrimediabilmente cambiata.
Da questo punto di vista la manifestazione contro la guerra di sabato scorso rappresenta un piccolo segnale incoraggiante. Al di la dei numeri, comunque da non sottovalutare vista l’esiguità delle piazze a cui c’eravamo abituati negli ultimi anni, e dei patetici balletti fatti dalla CGIL sulla piattaforma di convocazione per cercare di tenere dentro il centrosinistra, il corpo del corteo, prima ancora che gli interventi dal palco, ha infatti rigettato senza alcuna ambiguità la risoluzione parlamentare sulla fornitura di armi all’esercito ucraino. Un esito tutt’altro che scontato visto il fuoco di fila mediatico e a senso unico che viene messo in campo in questi giorni, e che ha prodotto una discontinuità plateale tra Roma e le altre piazze europee, neanche troppo larvatamente orientate nella richiesta di un maggiore “protagonismo” da parte della Nato e dell’UE. Una discontinuità che ha politicamente reso inopportuna la presenza del PD in piazza, altra cosa tutt’altro che scontata vista la faccia di tolla che da sempre caratterizza il partito italiano del neoliberismo “progressista”. Questo basta? Ovviamente no. Anzi, siamo molto lontani dal livello di mobilitazione e di consapevolezza che sarebbe necessario in questo momento, perché la lotta contro l’imperialismo e la tendenza alla guerra dovrà tornare prepotentemente a riempire la nostra agenda politica, ma ci fornisce comunque uno “spazio politico” in cui muoverci. E di questi tempi è già qualcosa.