il 17 marzo e la bandiera italiana…
Per fortuna è alle spalle il 17 marzo, posticcia festa nella quale dovevi necessariamente provare sentimenti di orgoglio, stati d’animo di commozione e aneliti di speranza. Tu, cittadino italiano, figlio della Patria, della gente del Piave, dell’Arma dei Carabinieri, dei padri della letteratura, degli sportivi professionisti, dei saltimbanco, degli attori e dei teatranti. Era un po’ come nella festa delle medie, dove ti dovevi divertire per forza per non essere emarginato. Mai come in questa situazione una vicenda di stretta attualità ha utilizzato strumentalmente la storia per bieco opportunismo, tra l’altro di cortissimo respiro. Non che ci sia da stupirsi, semmai ci stupiamo di come ancora ci caschino tante persone. Ci spieghiamo: è da una settimana che molte finestre espongono il tricolore. Quello che fa più male è vedere che ciò accade soprattutto nei quartieri popolari, dove c’è una maggiore consapevolezza e un livello più alto di sensibilità verso la politica. Sicuramente quella bandiera di merda non sarà stata esposta da militanti comunisti, ma siamo pronti a scommettere che, dietro quelle finestre imbandierate, ci fossero cittadini democratici, sinceramente progressisti, magari anche anti-razzisti. Persino anti-fascisti, laddove questo aggettivo abbia ancora un significato (e non sono pochi i quartieri in cui tuttora lo ha). Proviamo a fare un’analisi delle motivazioni: non si tratta di un rincoglionimento generale, piuttosto una conseguenza del fatto che la celebrazione del 150° anniversario italiano si sia inserita nel contesto dell’attuale crisi politica. In questo modo, il suddetto “cittadino democratico”, spinto in maniera martellante dalla “stampa progressista”, ha sventolato il suo tricolore come duplice atto di protesta (addirittura!): il tricolore contro la Lega Nord, “che è razzista e vuole dividere il Paese”, e il tricolore contro Berlusconi, “che si fa le leggi per auto-assolversi o comunque per continuare a fare i suoi porci comodi”. Quindi, tutti felici a sbandierare il tricolore, convinti di ferire nell’intimo il premier e di provocare lancinanti crisi di coscienza in un Borghezio, un Calderoli, un Maroni…
La pochezza di un ragionamento del genere non merita neanche di essere sottolineata. Semplicemente, qui facciamo due annotazioni. La prima è che, convinti di sferrare un colpo mortale al traballante governo (giustamente definito il “governo Ruby-Scilipoti”…), gli improvvisati e improvvidi sbandieratori non si sono resi conti di essere finiti nel consueto meccanismo di mistificazione della realtà e di oscuramento dei reali problemi del Paese (e dei suoi abitanti): agitare il tricolore contro i ladri e i razzisti al governo, persino contestare nelle celebrazioni ufficiali Berlusconi e la Lega ha significato diventare involontari attori (principianti) del teatrino quotidiano. Sul palcoscenico del 17 marzo si teneva lo spettacolo comico alla fine del quale tutti tornavano a casa contenti: gli sbandieratori – convinti di aver agito come i partigiani nel 1945 – la Lega Nord – che ha strizzato l’occhio ai suoi elettori valligiani con i soliti capricci da bambino (qui esco dall’Aula consiliare quando cantano il tricolore, lì fischietto “va’ pensiero”, da quell’altra parte disincentivo la vendita dei francobolli ufficiali, da quell’altra parte ancora mi metto a parlare di Bava Beccaris e di quanto era stato stronzo) – il governo (che per una settimana ha distolto l’attenzione dal puttaniere Berlusconi per concentrarla sul “cattivo leghista”) – persino (udite! udite!) il PD, che ha potuto recitare la parte del difensore dell’identità nazionale, gridando fiero “siamo noi i veri patrioti!” (tutto vero, l’hanno detto veramente!). La seconda annotazione è ancora più malinconica: mettiamo che un compagno, un militante di sinistra, un comunista, si sia svegliato da un coma o da un letargo decennale proprio in questa settimana (come Antonello Fassari in un programma satirico di qualche anno fa). Ebbene, se si fosse fatto un giro per le strade imbandierate come in questi giorni, il compagno sarebbe morto di crepacuore. L’Italia era un Paese, fino a pochi anni fa, che confinava l’ostentazione del tricolore e degli altri simboli “patriottici” alla destra radicale, cioè a quell’area a destra della Democrazia Cristiana. Il tricolore senza simboli aggiunti (la stella al centro, la bandiera rossa, al limite anche lo scudo crociato) era appannaggio dei fascisti, che non a caso si definivano “patrioti” (come Bersani oggi…) quando questo termine provocava nei sinceri democratici un evidente imbarazzo. L’ostentazione del tricolore era un preciso messaggio politico: a meno che non fossimo sotto l’ingresso di un albergo, si poteva trovare quasi esclusivamente nei comizi dell’MSI. Ora, sarebbe semplice (e auto-assolutorio) affermare che la “fobia” dell’identità nazionale era dovuta all’epoca al ricordo del fascismo e che, affievolendosi tale ricordo con il passare degli anni, si sia “laicizzata” anche la bandiera. Purtroppo pensiamo che la questione sia più complessa: la rivalutazione dei simboli nazionali è stata la conseguenza di un’attenta politica in merito, messa in pratica non dalla destra più becera, né dai paraculi di Alleanza Nazionale, ma da Ciampi e da Amato all’inizio degli anni Novanta. Sono stati proprio i due esponenti del centro-sinistra – a diverso titolo – a rilanciare la simbologia nazionale. I motivi sono abbastanza oscuri, se consideriamo che all’epoca era in piena costruzione l’Europa di Maastricht e rilanciare in contemporanea l’identità nazionale non sembrerebbe una mossa molto sincronizzata. Verrebbe da pensare che l’obiettivo fosse ancora una volta l’anti-comunismo, ma non vogliamo passare per fissati e paranoici. Fatto sta che il “ticket di merda” (Ciampi-Amato) re-inserisce nel protocollo ufficiale del 2 giugno la parata militare (soppressa negli anni Settanta quando le proteste dei compagni consigliarono di rinfoderare il militarismo accattone italiano) e lancia la grande stagione del tricolore e delle forze armate, con tutti i nessi e connessi. Buon ultimo il considerare “vera Resistenza” solo quella fatta dai militari, modello Cefalonia.
Con quanto detto, ovviamente, non vogliamo entrare nel merito storiografico del Risorgimento italiano e del suo significato. Non è questo articolo il luogo per un’operazione del genere, neanche limitata a ricordare i contributi di tutti coloro, da Gramsci in poi, che hanno fornito interessanti (a volte discordanti) opinioni sull’incidenza delle masse popolari nel Risorgimento italiano. Né volevamo addentrarci nella storia della simbologia istituzionale. Semplicemente, volevamo ricordare che fare propria questa simbologia retriva e utilizzarla come simbolo di “libertà dall’oppressione berlusconiana” significa portare al suo naturale compimento il percorso già intrapreso dalle istituzioni borghesi e volto a intervenire su un tema a noi molto caro, quello dell’immaginario del militante politico. Per questo, consigliamo, se proprio bisogna sventolare il tricolore, di farlo con la stella rossa e il fucile partigiano a tracolla.