Il commissariamento della politica nel silenzio generale
Nel 2000 Londra ebbe il suo primo sindaco, Ken Livingston. Prima di esso esisteva una sorta di organismo complesso formato dalle 32 municipalità cittadine, la Greater London Authority, assemblea peraltro sciolta nel 1986 e non più riconvocata fino, appunto, al 2000, anno in cui per la prima volta a Londra ebbero luogo le elezioni dirette del prima cittadino. Se una delle città più importanti del mondo è rimasta senza governo comunale per 14 anni e senza sindaco per secoli, cosa sarà mai questo passaggio di consegne tra Marino e Gabrielli? Una bazzecola della storia locale, una storia locale così densa di vicende che non si farà certo impressionare dall’esautoramento dei poteri del sindaco di turno. Così probabilmente devono pensare tutti gli attori politici cittadini. Non si spiegherebbe altrimenti il silenzio tombale che ha accolto la decisione politica più importante per la città almeno dal secondo dopoguerra in avanti: quella di commissariare il comune delegando al governo – per tramite del prefetto – le decisioni politiche rilevanti. Questa è, o dovrebbe essere, la vera notizia di questi giorni: il tacito assenso verso l’esautoramento di Marino. Eppure, nonostante Marino, questa è una notizia pessima, tragica, che in altri tempi forse avrebbe scatenato una mobilitazione politica trasversale, la corsa ad intestarsi la protesta. La resa della politica cittadina è un dato che dovrebbe imbarazzarci. L’assenza di alternative credibili ha portato tutti a tirare un sospiro di sollievo per il mancato scioglimento del comune, che avrebbe imposto le elezioni in una fase in cui nessuno le vuole davvero, tranne forse il Movimento 5 Stelle, l’unico in grado oggi di raccogliere il rifiuto popolare verso questo comune. E’ bene ricordare che il ruolo del sindaco da oggi, sostanzialmente, non esiste più. Già gravemente menomato dal Patto di stabilità che determina i margini di spesa dei comuni, oggi viene meno anche la possibilità di decidere sui soldi che il governo decide che possono essere spesi nella città. Al danno, per Marino, la beffa. “Da oggi ti occupi del decoro urbano e del traffico”: così gli hanno detto dal governo nella presa per il culo finale. Una cosa però è vera. Il caso romano non è per niente unico, fanno bene i membri della giunta capitolina a rilevarlo come estremo tentativo in difesa delle proprie sorti. Milano da anni è posta sotto commissariamento dal “commissario unico” Giuseppe Sala. E’ così che il “problema Roma” descrive una vicenda più generale, un modus operandi politico che impone l’accentramento totale di ogni decisione politica ed economica alle direttive Ue. E’ un processo a cascata: dall’Unione europea vengono imposti i margini di bilancio approvando e, alle volte, scrivendo direttamente le leggi finanziarie dei diversi paesi (vedi il caso Grecia, ma prima di lei Italia, Spagna, Irlanda, eccetera); i governi assumono le indicazioni imponendo ai comuni i margini di spesa possibili. A quel punto, che al governo della città ci sia un sindaco eletto o un prefetto espresso dal governo, cambia di poco il senso dei rapporti. E’ un esautoramento generale della politica, e sta avvenendo, almeno a Roma, senza alcuna protesta, e anzi con la malcelata soddisfazione di vedere in difficoltà Marino e alla guida del comune, in sostanza, Polizia e Magistratura: i poteri buoni, per un largo pezzo di sinistra che ha ormai abdicato a qualsiasi ruolo autonomo della politica. Se questa è la direzione, il voto (come da tempo evidente), perde qualsiasi funzione di rappresentanza di interessi. Al comune potrebbe esserci dall’estrema sinistra all’estrema destra, e non cambierebbe niente, perché, ripetiamo, i soldi che possono essere spesi sono pre-stabiliti e devono inderogabilmente essere pari alle entrate; e da oggi anche su questa forma di fiscal compact locale decide il governo, cioè la Ue. Un cerchio chiuso che dimostra alcune cose. La prima, che le elezioni, soprattutto a livello locale, non servono a niente: inutile di qui al prossimo futuro l’ipotesi di candidarsi per adempiere agli obblighi del fiscal compact. La rottura, infatti, non può che avvenire al livello almeno nazionale. Costringersi in un potere che non decide significherebbe solo scavarsi la fossa con le proprie mani. La seconda, che la situazione, ampiamente prevedibile e prevista, avrebbe dovuto portare già mesi fa alla mobilitazione perenne contro il comune e il governo, e invece tutto procede come se niente fosse, come se fossimo in condizioni di normalità quando da molti anni la situazione è straordinaria sotto tutti i punti di vista. In questo senso, l’ondata di sgomberi in vista della fatidica “normalizzazione della città” potrebbe produrre quantomeno una convergenza politica nel rifiuto del modello commissariale. La terza, che da oggi lo scenario cambia e in peggio. Con la Polizia di fatto al governo della città, tutti i margini di contrattazione politica, qualsiasi rapporto di forze fatto valere in passato, da oggi è superato. L’unico metro di riferimento è e sarà sempre di più la legalità formale, il rispetto dei codici economici imposti dal governo e dalla Ue. Lo sgombero di Degage è solo un episodio (subito seguito dallo sgombero di Area 19, tanto per rimarcare che non esistono differenze politiche, esiste solo il rispetto della legge), altri ne arriveranno e soprattutto sarà impossibile da oggi in poi ragionare in termini di legittimazione politica opponendo forme di resistenza. La resistenza è un fatto politico, e da oggi non c’è più il campo dove far valere questo diritto. Da oggi, al massimo, potremmo fare un ricorso al Tar.