Il contropotere delle curve e i rosicamenti di Stato
Sabato scorso si è palesato in tutta la sua evidenza quel contropotere sociale che alcune curve ancora riescono ad esercitare nei confronti del potere legittimo organizzato dallo Stato. Una dimostrazione che non può non aver messo in imbarazzo i rappresentanti legali del potere costituito, che infatti hanno dato avvio all’ennesima compagna di criminalizzazione verso il tifo organizzato e tutto ciò che gli ruota attorno. Non abbiamo intenzione di entrare nella vicenda della sparatoria. Non solo perché i contorni sono quanto mai indefiniti e oscuri, ma perché non costituisce il fatto importante della giornata. L’evento dirimente, affermatosi per l’ennesima volta su un campo di calcio, è il potere alternativo che alcune curve riescono a contrapporre al potere costituito. E tale potere è fondato su una collettività organizzata che si oppone con vari metodi, anche utilizzando l’uso della forza, al potere statale. Sabato la curva del Napoli ha dimostrato ancora una volta che senza il volere dei tifosi organizzati la partita di calcio non si gioca, e che quel mondo politico-economico che ruota intorno al gioco del calcio non può non fare i conti con i suoi protagonisti principali, che non sono i giocatori ma i tifosi organizzati.
La dinamica che in questi giorni tutto il mondo politico-mediatico si affanna a condannare, e cioè la presunta trattativa tra istituzioni e tifosi, non è altro che la concretizzazione di un rapporto di forza che quei tifosi sono riusciti ad imporre al discorso ufficiale. Non hanno strappato alcuna trattativa, ma l’hanno imposta da un rapporto di forza favorevole, quello per cui se il tifoso napoletano fosse morto la partita non si sarebbe giocata. Un’ovvietà talmente evidente che infatti ben hanno compreso i rappresentanti ufficiali presenti allo stadio, che si sono di fatto arresi al potere egemone in quel momento, potere che aveva la forza di determinare lo scenario entro cui far svolgere gli eventi. In altre parole, la partita si è giocata perché i tifosi del Napoli lo hanno voluto, altrimenti, nonostante le giustificazioni d’intransigenza postume del Questore, non avrebbe avuto luogo. Quell’intransigenza postuma sui giornali del giorno dopo in quel frangente non era possibile, perché una collettività organizzata anche sul piano militare lo avrebbe impedito. Con buona pace dei tutori dell’ordine pubblico, che esiste finché è politicamente sostenibile una determinata situazione. L’ordine pubblico è infatti – sempre – espressione tecnica di una volontà politica, e quella volontà, sabato, era determinata dai tifosi. Al di là dunque degli eventi successi fuori, è dentro lo stadio che si è mostrata la potenzialità di una collettività organizzata fuori da ogni ufficialità e legittimità, opponendo all’inverso una “contro-legittimità”.
Tralasciamo le polemiche assurde sul ruolo, e addirittura il vestiario, del rappresentante in quel momento dei tifosi del Napoli. Lo Stato, nei suoi rappresentanti in loco, non avevano altra scelta che quella di andare a trattare, e nel farlo non potevano che individuare quello che, in quel preciso momento, potesse parlare a nome di quella collettività. Un situazione talmente ovvia che quella “trattativa” è avvenuta anche di fronte alla cacciata, da parte della curva napoletana, di tutto quel circo poliziesco-mediatico che accompagnava il capitano del Napoli. Il fatto che anche di fronte allo sbeffeggiamento estremo quella “trattativa” sia comunque proseguita significa una cosa ben precisa: che non esistevano alternative, e che in quel momento era l’unica speranza per poter far proseguire lo spettacolo. Un rapporto di forze imposto e non subìto. Una dinamica, ovviamente facendo la tara dei diversi contesti e situazioni, che avrebbe molto da insegnare ai movimenti di classe.