Il disaccordo greco
Sembrerebbe oggi essere l’ennesima dead line per salvare il salvabile nel rapporto tra Grecia e i suoi cravattari. I sei mesi trascorsi dalla vittoria elettorale di Syriza non sono però passati invano. Non è stato strappato alcun margine temporale da Syriza per sopravvivere e valutare l’evoluzione della contrattazione in corso. E’ stato concesso tempo dalla Ue per mettersi al riparo dal Grexit. La sicurezza economica ha aperto le porte all’indipendenza politica di poter rompere l’accordo in ogni momento. La palla ora è tutta tra i piedi di Tsipras e soci, che non hanno alternative: o accettare l’ennesimo ciclo di controriforme sociali, o abbandonare la Ue senza neanche la soddisfazione di causare qualche perdita economica o politica al resto dell’unione. Un gioco a perdere per la Grecia, insomma, mentre dall’altra parte del tavolo l’alternativa è tra la vittoria completa dell’accordo o la noia temporanea di cancellare dalle mappe un paese ormai inutile. Siccome la partita è politica e non economica (basterebbe il bilancio della decima banca tedesca per ripianare ogni debito greco), la questione fastidiosa per la Ue sarebbe la convergenza con altri attori geopolitici rilevanti, in primo luogo la Russia. Questo rappresenterebbe più di un fastidio, in effetti, non tanto per lo sbocco economico che favorirebbe il competitor geopolitico, assolutamente irrilevante, quanto per l’esempio e la suggestione che potrebbe favorire. Se fuori dall’euro si scoprisse che c’è vita, che non si sprofonda nell’abisso della povertà indefinita, questo si che sarebbe un problema per la costruzione politica europeista. Il cuore del dominio capitalista è proprio quello di aver azzerato ogni possibile alternativa. Anche la retorica europeista dipinge i confini interni alla Ue come unica possibile via di sviluppo, unico luogo pensabile entro cui prosperare economicamente. L’ipotesi dell’alternativa è il terrore che attraversa le menti politiche della Ue. Fuori dalla Ue (e dagli Usa), c’è la terra inesplorata del populismo bolivariano, dell’autoritarismo putiniano, dell’estremismo religioso tagliagole dell’Isis, dell’autarchia nazionalista dei Front national de noantri o delle coree del nord, del capitalismo totalitario cinese, e via dicendo. Il resto del mondo è barbaro, violento, oscuro: la Ue è la luce.
Siamo avvolti dal terrorismo ideologico del Tina, quel there is not alternative di tacheriana memoria. L’assenza di alternativa impone la dismissione delle strutture sociali volte alla “mediazione integrante”. L’astensionismo al 50% da problema sociale di prim’ordine retrocede a noia momentanea, perché un 50% senza alternativa non crea problemi, anzi, ne risolve persino qualcuno. Favorire partecipazione, inclusione sociale, politica o culturale, mediare le ragioni del mondo del lavoro: schemi da prima repubblica o da Stato-nazione. Questa la grande cornice che potrebbe essere messa in discussione dall’uscita di scena della Grecia e un suo contestuale ritorno all’indipendenza politica. Questa allora l’ultima remora al definitivo abbandono della Grecia a se stessa. Ma per il resto, i giochi ormai sono conclusi e i capitali messi in salvo. Certo non sono addossabili esclusivamente a Syriza le ragioni di questa sconfitta, qualsiasi forma prenda l’accordo previsto per oggi o per chissà quando. L’unica vera colpa politica di Tsipras è stata quella di aver distillato tra le sinistre europee di ogni risma la fiducia nella riformabilità della costruzione europeista. Un positivismo ideologico connaturato alle opzioni socialdemocratiche duro a morire, e che purtroppo non varrà di lezione neanche questa volta.
Syriza sola non poteva fare altro di rilevante. Un movimento d’opinione, cresciuto elettoralmente grazie alla capacità di intestarsi la suggestione di un movimento di lotta, esattamente quello che doveva fare peraltro, non poteva sperare di riequilibrare un rapporto di forze senza alla spalle l’energia di lotte di classe capaci di costringere la direzione politica a scelte radicali. Si è inceppato un meccanismo, stretto tra nichilismo anarchico disinteressato alle sorti del paese nel suo complesso e positivismo socialdemocratico dei buoni sentimenti, speranzoso nel buon cuore dei riformismi europeisti à la Renzi-Hollande. Avremmo fatto tutti la fine di Tsipras, senza la mobilitazione costante del soggetto sociale di classe. Non ci sono indicazioni da dare o da trarne, allora, se non quella che l’unica forza possibile di fronte all’Europa dei capitali transnazionali è quella del conflitto di classe organizzato politicamente. Senza, anche il più sofisticato dei giocatori di poker sarebbe stato smascherato dal suo bluff: quello di costringere all’autoriforma della Ue minacciando un’uscita di scena unilaterale. Per bluffare a questo livello bisognava azzeccare il timing giusto, cogliere l’occasione. Sei mesi dopo, è l’Europa che la sta cogliendo, imponendo una svolta politica al governo socialdemocratico o liberandosi dell’inutile propaggine. Anche questo volta il tempo, in politica, si conferma uno dei tratti determinanti che distinguono un rivoluzionario da un onesto mestierante. E la stoffa del rivoluzionario, quella davvero mancava al pur bravo premier ellenico.