Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg
E’ possibile recensire un libro che quest’anno celebra i suoi trentasette anni dalla prima edizione? Per di più, è possibile consigliare uno dei più importanti – e letti – testi della nuova storia, oggi perennemente attaccata da un revisionismo storico che non lascia prigionieri, ma all’epoca una delle più importanti espressioni culturali europee?
Forse si, è possibile, se la lotta di classe la vogliamo portare anche sul piano delle idee, evitando di rimanere schiacciati da un certo economicismo che è la caratteristica essenziale di questi anni. Per questo, allora, invitiamo a leggere, o rileggere, il formaggio e i vermi di uno dei più grandi storici italiani, Carlo Ginzburg.
Cosa c’entra un saggio storico su un contadino del ‘500 con la lotta di classe delle idee che dovremmo portare avanti oggi più che in passato? C’entra eccome, perché proprio quell’egemonia culturale che il marxismo esercitava negli anni settanta ha prodotto vere e proprie rivoluzioni nei vari ambiti intellettuali, che si legavano gli uni agli altri da quel filo rosso costituito da una certa visione del mondo comune.
Proprio quella visione del mondo, quell’egemonia culturale che circolava fra avanguardie politiche, movimenti, classe operaia ed elite culturali, riusciva a produrre i suoi effetti non solo nel campo eminentemente politico del suo agire, ma permeava la società producendo continue rivoluzioni culturali, determinate non dalla capacità individuale dell’artista, ma dal contesto creativo che egemonizzava il discorso politico. Detta in altri termini, gli intellettuali e gli artisti non erano “tutti di sinistra” per una qualche loro presa di coscienza individuale, ma perché la forza creativa dei movimenti rivoluzionari aveva avuto al capacità di orientare i discorsi, i pensieri, le attitudini, confermando così in maniera evidente che le idee non nascono da spunti personali e individuali, ma crescono da un contesto collettivo che determina il modo di pensare degli individui. Altra controprova, una volta terminata l’egemonia marxista prodotta dal conflitto degli anni sessanta e settanta, tutta quella intellettualità diffusamente – e genericamente – di sinistra è rifluita nell’impolitico, nel personale e in altri schemi favoriti dallo spirito dei tempi attuale (arretramento subito anche da Ginzburg, infatti).
La ricerca storica è uno di quei campi. Prima che l’egemonia culturale prodotta dal conflitto sociale si imponesse nel discorso pubblico e nella cultura diffusa, la ricerca storica era orientata tutta sull’esegesi delle classi dominanti. La storia veniva letta (e studiata) come una serie di episodi, o catena di avvenimenti singoli che incidevano sul corso degli eventi. Era la storia delle battaglie, delle dinastie, dei papi e dei re, delle idee. Non era solo una caratteristica tipica della storia, ma influenzava anche gli altri campi del sapere. Lo sviluppo dell’uomo era determinato da ciò che facevano e disfacevano le classi dominanti.
Nel novecento si impone la storia delle classi subalterne. La storia di lungo periodo, la storia del conflitto. Leggendo la storia come lungo e interminabile conflitto fra subalterni e classi dominanti, cambiava il punto d’osservazione. Si dava, soprattutto, possibilità d’espressione a quella società che per secoli era rimasta fuori da ogni discorso storico. Il formaggio e i vermi è esattamente uno dei capisaldi di questa nuova storia, che ridà centralità ai protagonisti effettivi della storia e li riabilita nel discorso pubblico.
Stabilendo dei punti fermi che qui sinteticamente riportiamo: 1) che le idee di una società, il modo di pensare e la mentalità popolare non sono frutto esclusivo delle classi dominanti, ma piuttosto il prodotto di una circolarità della cultura, e che i subalterni – i lavoratori, gli schiavi, le donne, gli esclusi – producevano insiemi di culture che non erano il semplice appropriamento di idee prodotte altrove, idee di seconda mano volgarizzate dal popolo e imposte dalle elite dominanti; 2) che questa cultura popolare, frutto di una sedimentazione secolare di idee, atteggiamenti, espressioni, comportamenti e quant’altro, influenzava i comportamenti e le idee delle classi dominanti, la permeava e non era unicamente in un rapporto di subalternità; 3) che diamo per scontato che ciò che pensavano le classi dominanti fosse ciò che pensava la società nel suo insieme. Niente di più falso, ed il libro vuole dimostrare proprio questo: non riusciremo mai a capire la mentalità popolare del passato se ci basiamo unicamente su quella prodotta dalle elite, dando per scontato appunto questa condivisione di idee e esperienze.
Sembrano concetti astratti o quantomeno lontani da noi e dai nostri problemi, e ci sbaglieremmo di molto. E’ esattamente quello che sta accadendo oggi, quantomeno nel mondo occidentale: si da per scontato che il pensiero delle classi dominanti sia anche quello delle classi sfruttate e subalterne, dei lavoratori. Che esista un pensiero unico ormai pacificato e condiviso, e tutti i riferimenti culturali rimandano a questo. E’ invece proprio l’assoluta alterità fra il pensiero globalizzato delle elite e la cultura proletaria che dovremmo sottolineare, esaltare, esplicitare in ogni dove.
Cosa pensano e come pensano i lavoratori. Sembra scontato, ma l’allontanamento di una certa sinistra dal mondo del lavoro, la sua presa di distanza verso modelli più accomodanti e referenti sociali meno problematici, ci sta facendo dimenticare come interagire col mondo del lavoro. Stiamo perdendo gli strumenti, quel lessico comune che un tempo veniva dato per scontato. Anche per questo, veniamo colti di sorpresa ad ogni tornata elettorale, ad ogni esplosione di rabbia, ad ogni piazza data alle fiamme, ad ogni movimento collettivo che si esprime in forme e modi che noi non concepivamo. O meglio, che una certa sinistra non concepisce più. Una sinistra e anche un movimento che preferisce esprimersi in inglese, o nella rete, dando per scontati codici e riferimenti culturali (e sottoculturali) buoni forse per noi ma non certo per il resto della società.
La nuova storia, che questo saggio storico rappresenta con tutta la sua forza, voleva sottolineare proprio questo: non dare per scontato il pensiero delle classi sfruttate, indagarlo, svelarlo, far parlare direttamente i protagonisti della storia non meno dei re e delle dinastie di cui i manuali di storia sono ricoperti.