Il nodo della concertazione

Il nodo della concertazione

 

Assistiamo da più parti, e da diverso tempo, ad un attacco a tutto campo nei confronti della cosiddetta “concertazione”, cioè quell’insieme di relazioni fra parti sociali e governo per riformare determinati aspetti dell’economia e del mondo del lavoro. E’ un attacco diretto e ultimativo: le riunioni che il governo decide (unilateralmente) di svolgere con i sindacati vengono definite “riti fuori tempo e fuori bilancio”, con cui una parte, solitamente le parti sociali, cioè i sindacati, vorrebbe imporre ai governi di turno la loro visione del mondo e dei rapporti sociali.

Ecco alcune definizioni e opinioni dominanti oggi la retorica politica e mediatica, che descrivono quello che dovrebbe essere il mostro da abbattere, cioè la concertazione, che per troppi anni ha incatenato le sorti dell’Italia in un economia para-socialista e consociativa (nei media, queste caratteristiche divengono sinonimi):

 

“..i sindacati vogliono concorrere alla definizione delle misure che il governo presenterà al parlamento..”  “La concertazione è stata per molti anni il totem intoccabile della democrazia consociativa..”  “Quando chiede la concertazione, un sindacato pretende per i propri soci più poteri di quanti ne abbia un cittadino qualunque, vuole essere..un contropotere, un passaggio obbligato..”   “Se abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi e accumulato un enorme debito pubblico, lo dobbiamo anche alla concertazione.”

(dal Corriere della Sera e Repubblica del 4/01/12)

 

Ora, il problema della concertazione semmai è di tutt’altro spessore: per anni i sindacati, con la scusa della concertazione, si sono piegati ed hanno acconsentito alle peggiori riforme del mercato del lavoro in cambio di qualche privilegio e qualche riconoscimento sindacale. In più, hanno pensato di sostituire la lotta nei luoghi di lavoro, le lotte sindacali, col tentativo di raggiungere gli stessi miglioramenti sociali tramite tavoli permanenti con i governi, credendo davvero possibile raggiungere tramite il compromesso ciò che non riuscivano a raggiungere tramite la lotta. Abdicando di fatto alla conflittualità sociale per sedersi attorno ad un tavolo, convinti che i governi davvero prendessero in considerazioni le proposte solamente perché ragionate e discusse in un ambito istituzionale.

Quello che però è attaccato nei discorsi e nei ragionamenti odierni non è questo tipo di visione, ma proprio il fatto che il governo di turno dovrebbe discutere con le parti sociali le riforme – sociali, appunto – che interessano i lavoratori, dei quali i sindacati dovrebbero essere i rappresentanti. In un ottica democratico-liberale, infatti, la concertazione dovrebbe essere proprio uno dei punti fondamentali con il quale portare avanti le riforme sociali. La concertazione infatti non prevede conflitto sociale, e finchè il sindacato è attaccato al tavolo delle trattative i padroni sapranno benissimo che non si arrischierà a pericolose fughe in avanti. E’ da questo punto di vista che noi dovremmo chiedere la fine della concertazione, perché cioè anestetizza le lotte di classe. Se invece a chiedere la fine della concertazione sono proprio quegli esponenti della democrazia liberale che hanno tutto l’interesse a mantenerla, i conti non tornano più. La fine della concertazione infatti, in quest’ottica, diventerebbe fine del ruolo del sindacato nel concertare le riforme del mercato del lavoro. Premesso che non dovrebbe essere (solo) questo il ruolo del sindacato, nella visione liberale (e liberista, i due termini vanno sempre a braccetto e solo in Italia sono presenti due definizioni per uno stesso concetto) la soluzione sarebbe che il governo andasse spedito nelle sue riforme senza ascoltare alcuna parte sociale. Tranne, forse, la parte “sociale” dei padroni, e cioè la Confindustria.

E’ questo il livello del dibattito oggi presente in Italia nel campo delle riforme sociali: i sindacati, tramite la concertazione, hanno determinato il livello di debito pubblico italiano, proprio perché non hanno consentito le liberalizzazioni e le migliorie al mercato del lavoro, le sole che avrebbero potuto far crescere l’Italia e abbattere il debito pubblico. Di fronte a questa narrazione, che definire tossica è fargli un complimento, oggi come oggi rischiamo di rimanere disarmati. O difendiamo la concertazione come mediazione al ribasso ma pur sempre mediazione, o non ci esprimiamo al riguardo, lasciando così passare il concetto della fine della concertazione come ennesimo risultato positivo di questo governo, che sta spostando sempre più verso destra ogni qualsiasi discorso politico ed economico. A fronte di tutto questo, sarebbe importante non lasciare ai soli sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, e alle rappresentanze politiche formalmente di sinistra PD-IDV-SEL questo argomento, che invece dovrebbe interessarci e toccarci molto più di quanto non sembri.