il patto della fabbrica?
I padroni piangono miseria, fanno l’elenco delle aziende che chiudono, si lamentano della pressione fiscale e del costo del lavoro e poi, di fronte al procedere della crisi generata dalle contraddizioni del modo di produzione di cui sono classe dominante, arrivano ad invocare improbabili “patti” con i lavoratori. I sindacati confederali, dal canto loro, prendono la palla al balzo per veder riconosciuto il loro ruolo concertativo e ammettono che si, in fondo siamo tutti sulla stessa barca. E’ (o almeno vorrebbero che fosse) il cosiddetto “patto della fabbrica”, versione aggiornata di quel patto dei produttori che ciclicamente ci viene propinato e che tanto piace ai riformisti d’ogni risma. Ma in questo ragionamento, che a prima vista sembrerebbe addirittura ragionevole, c’è almeno un fondo di verità? In questi giorni per altre ragioni c’è capitato di riprendere in mano “Lavoro salariato e capitale”, un testo talmente attuale che in alcuni passaggi sembra quasi che Marx stia commentando gli editoriali del Corriere o del Sole 24 ore: Che cosa avviene nello scambio fra capitale e lavoro salariato? L’operaio riceve in cambio del suo lavoro* dei mezzi di sussistenza, ma il capitalista, in cambio dei suoi mezzi di sussistenza, riceve del lavoro, l’attività produttiva dell’operaio, la forza creatrice con la quale l’operaio non soltanto ricostituisce ciò che consuma, ma conferisce al lavoro accumulato un valore maggiore di quanto aveva prima. L’operaio riceve dal capitalista una parte dei mezzi di sussistenza esistenti. A che gli servono questi mezzi di sussistenza? Al consumo immediato. Ma non appena io consumo mezzi di sussistenza essi sono per me irrimediabilmente perduti, nel caso in cui io non utilizzi il tempo durante il quale essi mi tengono in vita per produrre nuovi mezzi di sussistenza, per creare, cioè, con il mio lavoro, durante il consumo, nuovi valori al posto dei valori perduti nel consumo stesso. Ma è appunto questa nobile forza riproduttiva che l’operaio cede al capitale in cambio dei mezzi di sussistenza ricevuti. Per se stesso quindi egli l’ha perduta.
Prendiamo un esempio: un fittavolo dà al suo giornaliero cinque groschen d’argento al giorno. Per questi cinque groschen d’argento il salariato lavora sul campo del fittavolo per tutta la giornata, assicurandogli in tal modo un’entrata di dieci groschen d’argento. Il fittavolo non riceve soltanto, ricostituiti, i valori ch’egli ha dato al salariato, ma li raddoppia. Quindi, egli ha impiegato, consumato in modo profittevole, produttivo, i cinque groschen d’argento ch’egli ha dato al salariato. Per cinque groschen d’argento egli ha comprato il lavoro e la forza del salariato i quali rendono prodotti del suolo per un valore doppio, e di cinque groschen d’argento ne fanno dieci. Il salariato, invece, al posto della sua forza produttiva, i cui effetti egli ha ceduto al fittavolo, riceve cinque groschen d’argento che egli scambia contro mezzi di sussistenza, che consuma più o meno rapidamente. I cinque groschen d’argento sono stati dunque consumati in due modi: in modo riproduttivo per il capitale, poiché essi sono stati scambiati con una forza-lavoro che ha prodotto dieci groschen d’argento; in modo improduttivo per l’operaio, poiché essi sono stati scambiati con mezzi di sussistenza, che sono scomparsi per sempre e il cui valore egli potrà riavere soltanto ripetendo il medesimo scambio con il fittavolo. Il capitale presuppone dunque il lavoro salariato, il lavoro salariato presuppone il capitale. Essi si condizionano a vicenda; essi si generano a vicenda . Un operaio in un cotonificio produce egli soltanto tessuti di cotone? No, egli produce capitale. Egli produce valori che serviranno nuovamente a comandare il suo lavoro, per creare a mezzo di essi nuovi valori.
Il capitale può accrescersi soltanto se si scambia con il lavoro*, soltanto se produce lavoro salariato. Il lavoro salariato si può scambiare con capitale soltanto a condizione di accrescere il capitale, di rafforzare il potere di cui è schiavo. Aumento del capitale è quindi aumento del proletariato, cioè della classe lavoratrice. L’interesse del capitalista e dell’operaio è quindi lo stesso, sostengono i borghesi e i loro economisti. E infatti! L’operaio va in malora se il capitale non lo occupa. Il capitale va in malora se non sfrutta il lavoro*, e per sfruttarlo deve comperarlo. Quanto più rapidamente si accresce il capitale destinato alla produzione, il capitale produttivo, tanto più fiorente è l’industria; quanto più la borghesia si arricchisce, quanto più gli affari vanno bene, tanto più il capitalista ha bisogno di operai, tanto più caro si vende l’operaio. La condizione indispensabile per una situazione sopportabile dell’operaio è dunque l’accrescimento più rapido possibile del capitale produttivo. Ma che cosa vuol dire accrescimento del capitale produttivo? Accrescimento del potere del lavoro accumulato sul lavoro vivente. Accrescimento del dominio della borghesia sulla classe operaia. Quando il lavoro salariato produce la ricchezza estranea che lo domina, il potere che gli è nemico, il capitale, i mezzi di occupazione, cioè i mezzi di sussistenza, rifluiscono nuovamente verso di lui, a condizione ch’esso si trasformi di nuovo in una parte del capitale, in una leva che imprima di nuovo al capitale un accelerato movimento di sviluppo. Dire che gli interessi del capitale e gli interessi del lavoro sono gli stessi, significa soltanto che il capitale e il lavoro salariato sono due termini di uno stesso rapporto. L’uno condiziona l’altro, allo stesso modo che si condizionano a vicenda lo strozzino e il dissipatore. Sino a tanto che l’operaio salariato è operaio salariato, la sua sorte dipende dal capitale. Questa è la tanto rinomata comunità di interessi fra operaio e capitalista.
Più chiaro di così!
* al posto di lavoro si legga più correttamnete forza-lavoro così come spiegato da Engels nella prefazione del 1891: Le mie modificazioni si aggirano tutte attorno ad un sol punto. Secondo l’originale, l’operaio vende al capitalista, per un salario, il suo lavoro; secondo il testo attuale egli vende la sua forza-lavoro. A proposito di questa modificazione devo dare una spiegazione. Una spiegazione agli operai, perché essi vedano che non si tratta di una pedanteria verbale, ma piuttosto di uno dei punti più importanti di tutta l’economia politica. Una spiegazione ai borghesi, perché essi possano convincersi della enorme superiorità degli operai incolti, ai quali si possono rendere facilmente comprensibili i problemi più difficili dell’economia, sui nostri presuntuosi uomini “colti”, cui tali questioni intricate restano insolubili per tutta la vita.