Il voto turco: spunti di riflessione e punti di vista
Lo scorso 7 giugno la redazione online di Europa ha pubblicato un interessante articolo a firma di Nicola Mirenzi, giovane giornalista che negli ultimi anni ha fatto di Istanbul la sua seconda casa; in vista delle elezioni turche che si sarebbero svolte il successivo 12 giugno – con la scontata terza riconferma del premier Erdogan – ci siamo trovati a leggere questo articolo che ha avuto il pregio di guardare oltre la mera dinamica elettorale, tracciando un ritratto della Turchia e delle sue forze politiche dall’interno, al fine di mettere a nudo pregi e difetti di un paese che, nell’area araba del Mediterraneo, è oggi guardato come uno dei modelli politici di riferimento anche dai quei paesi che, ad inizio anno, hanno vissuto tumulti e cambiamenti che sembravano condurre molto più lontano. Il pregio riconosciuto alla Turchia, infatti – ed al modello Erdogan in particolare – è quello di aver coniugato la spinta “democratica” ad una decisa conservazione dell’impianto islamico il cui interprete principale, l’AKP di Erdogan (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo), sembra “muoversi in direzione autoritaria, riuscendo a conformarsi alle regole del sistema economico e finanziario globale pur continuando a mobilitare a livello interno le risorse per una rete di protezione”. Sono queste alcune delle parole usate da Soli Ozel, rubrichista de L’Espresso e ordinario nel Dipartimento di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Bilgi University di Istanbul. Nell’articolo in questione (L’Espresso, 9 giugno 2011, Fidatevi della Turchia, pp. 80-81) e in un altro intervento dopo il voto (leggi), Ozel ripercorre da un lato il rapporto Turchia-vicinato arabo, dall’altro invece pone l’accento sulla questione kurda che deve essere necessariamente all’ordine del giorno, sia perché da sempre rappresenta il vero discrimine del governo turco, sia perché la netta affermazione del BDP (Partito Nazionalista Kurdo per la Pace e la Democrazia) – che per la prima volta nella sua storia si è alleato con i partiti della sinistra indipendente e altri partiti kurdi – ha portato 36 candidati indipendenti all’Assemblea Nazionale.
Crediamo che la situazione turca, nelle sue variegate sfumature, sia un elemento politico sottovalutato e che meriterebbe, invece, un’attenzione maggiore. L’aver proposto alcuni spunti di riflessione in seguito alla vittoria dell’AKP non fa di noi, ovvio, dei sostenitori di Erdogan, tantomeno del modello turco cui accennavamo; ci premerebbe molto di più veder risolta e alla ribalta dei riflettori l’annosa questione kurda, il che passa comunque e inevitabilmente attraverso una certosina analisi del panorama turco. Crediamo altresì che una riflessione collettiva su questo tema, non proprio all’ordine del giorno (anche sull’agenda dei compagni), sia doverosa vista la portata politica che questo ragionamento sottintende.
Detto questo, di seguito riportiamo l’articolo di Mirenzi, mentre per le parole di Ozel rimandiamo al link precedentemente consigliato e, più in generale, alla rubrica “Senza Frontiere” de L’Espresso.
Il sultano repubblicano corre verso il tris
Domenica si vota in Turchia, per Erdogan riconferma scontata
Istanbul, 7 giugno 2011
Le sontuose gigantografie del “sultano repubblicano”, nelle strade di Istanbul, dicono già tutto delle elezioni che la Turchia celebrerà domenica 12 giugno. La faccia visionaria e sicura del primo ministro Recep Tayyip Erdogan si affaccia dappertutto, con cartelloni pubblicitari e manifesti mastodontici, ad annunciare il futuro brillante che attende la Turchia marchiata dal suo islam politico democratico. I gazebo del partito per lo sviluppo e il progresso (Akp) spuntano come funghi nelle piazze, sotto le moschee, nei punti di passaggio. Con furgoncini tappezzati dell’immagine del leader, i sostenitori di Erdogan si tuffano nell’assurdo traffico cittadino e diffondono il verbo di un paese con l’autostima sempre più alta, che decolla in economia, che guarda al futuro con la certezza di chi sa che nell’avvenire ci sarà per lui un posto sempre più importante. I volantini che i ragazzotti del partito distribuiscono porta a porta, infilandoli sotto gli spifferi dell’uscio, hanno stampate le immagini di otto anni di buon governo: opere pubbliche realizzate, più istruzione per i poveri, traguardi in economia raggiunti. Dopo il secondo mandato, Erdogan si candida così a presiedere l’esecutivo per la terza volta consecutiva, con le credenziali di chi è ormai ben accomodato alla cabina di regia, e senza nessuna intenzione di lasciarla. I sondaggi danno il suo partito intorno al cinquanta per cento dei voti. Una percentuale altissima, che sembra non andare d’accordo con lo zelo che lui e i suoi sodali stanno mettendo nell’ottenere una rielezione tutto sommato scontata. Eppure il motivo di tanto strafare c’è, eccome.
Il fatto è che Erdogan, queste elezioni, non le vuole soltanto vincere: vuole stravincerle. La parabola politica del suo partito, nato dalla necessità di coniugare le istituzioni laiche della repubblica con la cultura tradizionale musulmana (seguendo l’esempio della cristiano-democrazia tedesca), è la chiusura plastica di un cerchio che s’intreccia intimamente con la storia dell’intero paese. Il successo di Erdogan comincia nel deterioramento dell’utopia del fondatore della patria, Kemal Ataturk, che voleva trasformare un popolo erede di un grande impero musulmano in una nazione a immagine e somiglianza dell’Occidente, uno stato che non riconosceva nel suo spazio nessuna cittadinanza alla religione, un apparato sordo agli insopprimibili richiami delle radici. Il racconto dell’avventura di Erdogan, la rapidità con cui ha calamitato la scena pubblica, non è altro che la storia di come il rimosso sia tornato a galla nella psiche collettiva turca. L’identità islamica a lungo repressa, con lui e i suoi uomini, ha potuto finalmente trovare lo spazio per esprimersi alla luce del sole. Senza più vergogna. Stanca della violenza con cui i militari l’hanno sempre tenuta a bada, con ben quattro colpi di stato, uccidendo e incarcerando, per tutelare l’ideologia di cui sono custodi.
Con i due governi che ha alle spalle, Erdogan ha già di fatto mutato i connotati della repubblica. Sotto la sua guida, il potere dell’esercito è stato di gran lunga ridimensionato, la cultura islamica ha smesso di essere un tabù, le maglie della democrazia si sono assai allargate (e non perché Erdogan sia un sincero liberale, ma perché l’unico modo per rimpicciolire il controllo dell’esercito era fare leva sul grande desiderio di libertà che abita la società turca).
Così, la terza rielezione di Erdogan alla guida del governo sarebbe il sigillo di un percorso più lungo, iniziato prima di lui e che lui vuole compiere, quasi fosse una missione personale. Il suo obiettivo è quello di cambiare la costituzione, quella scritta dai militari dopo il putsch del 1980, per darle una fisionomia più conforme a ciò che la Turchia è diventata oggi. Solo che per farlo Erdogan ha bisogno di una maggioranza larghissima in parlamento. Per questo vincere non gli basta. Deve stravincere.
Il punto è che la spinta riformatrice e liberale che ha caratterizzato i primi anni di governo Erdogan sembra ormai essere andata perduta. La sicurezza di sé che promana dal partito al governo rischia di rovesciarsi in un desiderio di onnipotenza che danneggerebbe anche le conquiste fin qui ottenute.
Il disegno erdoganiano di trasformare la repubblica parlamentare in un sistema presidenziale concentrerebbe nelle mani dell’esecutivo un potere strabordante e pericoloso.
Soprattutto in assenza di una forza d’opposizione davvero capace di contendergli la scena. Anche se il principale antagonista di Erdogan, il partito repubblicano del popolo (Chp), guidato dal nuovo leader Kemal Kilicdaroglu, è diventato decisamente più seducente agli occhi dell’elettorato turco, abituato a trovarsi di fronte un partito fermo agli anni Trenta. Il merito, più che dell’apparato, rimasto rigido e polveroso, è del singolare tratto personale del leader che, figlio di madre armena, curdo, di religione alevita, racchiude in sé le tre principali ferite della storia turca: il massacro degli armeni, il disconoscimento dell’identità curda, la discriminazione delle minoranza religiose islamiche.
Da ottimo politico qual è, Kilicdaroglu ha intuito che per strappare voti a Erdogan c’è bisogno di intercettare i bisogni delle classi sociali più povere, che sono il vero serbatoio di voti del premier. Per questo ha tentato di spostare l’asse politico a sinistra, nel tentativo di trasformare un partito nazionalista, repubblicano, sostanzialmente di destra, in una forza socialdemocratica. Un’operazione che gli è riuscita solo in parte, perché il nocciolo duro del partito continua a rimanere inchiodato nella nostalgia, nei fasti di un passato ormai tramontato, senza nessuna voglia di darsi una scrollata. I sondaggi più positivi danno il Chp al trenta per cento dei voti (mentre alle ultime elezioni si assestò al 20,88 per cento), ancora troppo poco per impensierire davvero la supremazia di Erdogan e i suoi. E infatti la brutta notizia per la democrazia turca non è – come in questi anni è stato sostenuto – il disegno islamista del partito di governo. È la mancanza di una vera alternativa al “sultano repubblicano”.
Nicola Mirenzi