Il voyeurismo necrofilo
Che i media generalisti si stiano trasformando in accessori al servizio della perversione social, è un fatto da qualche anno sempre più evidente. Le pagine dei principali siti d’informazione sono sempre meno contenitori, per quanto ideologicamente schiarati, di notizie, e sempre più raccoglitori di likes e retweet. Sempre più le colonne destinate alle stronzate folkloristiche assumono centralità in quanto portatrici di valanghe di condivisioni che determinano la quantità di pubblicità e dunque di introiti delle maggiori testate nazionali. Tale fenomeno non può che riversarsi sulla carta stampata, imponendo una gerarchia delle notizie capovolta, per cui la priorità viene data non all’importanza oggettiva dell’evento ma alla sua potenziale “condivisibilità”. Se sommiamo questo fenomeno al contestuale obiettivo dei media mainstream, cioè quello di sviare l’attenzione dagli eventi centrali per focalizzarla sugli aspetti, nel migliore dei casi, sovrastrutturali della vita quotidiana, è possibile comprendere quale sarà il livello dell’informazione social del futuro, una valanga inarrestabile di notizie inutili su cui concentrare l’attenzione della grande maggioranza della popolazione. Internet, da questo punto di vista, lungi dall’aver generato forme di controinformazione o resistenza culturale di qualche tipo, ha evidentemente facilitato e accelerato un processo d’altronde già connaturato agli stessi strumenti informativi ufficiali (come d’altronde è la stessa rete, uno strumento controllato da multinazionali dell’informazione). Questo processo, d’altronde già evidente in tutti i mesi dell’anno, in agosto assume la sua forma più plateale. L’assenza (apparente) di notizie d’altro tipo eleva ogni scureggia a notizia da prima pagina, a fatto sociale, evento interessante, mondano, di tendenza. Tra i quali rientra la copertura mediatica data al funerale di Vittorio Casamonica. Un fatto di per sè privo di qualsiasi significato rilevante: quella messa in scena è la forma tipica del funerale rom o sinti. L’uso dei cavalli, dei petali di rosa, del feticismo pacchiano verso modelli occidentali indotti e subìti (spazzature hollywoodiane utilizzate come forma di riconoscimento, di importanza, di potere), l’ostentazione di soldi e rilevanza. Un brutto funerale, sintomo dell’accettazione di un modello più che suo rifiuto, ma pur sempre e solo un funerale. Niente di più, niente di meno. Un corteo di auto che blocca per qualche minuto il traffico di qualche via cittadina è la normale e usuale forma che assume ogni funerale a cui partecipa tanta gente. Le scelte della famiglia, per quanto opinabili, rimangono pur sempre le scelte della famiglia. Di funerali pacchiani, indecenti, sub-culturali ne è pieno il panorama necrofilo. Certo, si obietterà che questa volta il morto era un “mafioso”, ma non può essere questo il discrimine per la chiesa, che fa motivo di vanto proprio il suo essere aperta ad ogni essere umano, in primo luogo al peccatore. Qual è il problema allora? A parte la questione “notizie ad minchiam” sparate come se fossero eventi decisivi per la vita dell’uomo, ci sono altri due fattori interessanti da notare, ambedue politici. Da una parte un nutrito gruppo di potere guidato dai palazzinari amici del Pd punta alla defenestrazione di Marino e al ritorno alla urne, piegando verso tale obiettivo ogni notizia che può accelerare il termine della giunta, o quantomeno farla procedere nei binari dell’eccezionalità consentendo il commissariamento permanente da parte del governo. Dall’altra una questione politica più generale, quella di generare un calderone indistinto di piccoli responsabili del degrado cittadino su cui focalizzare l’attenzione voyeuristica dell’opinione pubblica tale da salvare i responsabili politici del declino della città e del paese.
Fatta questa lunga e doverosa premessa, è bene anche non cadere nell’ambiguità di riflessione verso pezzi di criminalità cittadina. E’ sacrosanto “gerarchizzare” le responsabilità dell’attuale situazione sociale della città, per cui qualsiasi nefandezza compiuta da un Casamonica (ma anche da un Carminati o da un Buzzi) non eguaglierà neanche lontanamente l’operato di un Caltagirone qualsiasi, ma “l’anti-Stato” rappresentato da certi clan criminali non è difendibile in nessuna sua forma, neanche se fa incazzare le autorità costituite e mette in difficoltà il prefetto di turno. Non c’è equivalenza tra la legalità formale rappresentata dallo Stato e illegalità criminale operata dalle cosche cittadine. Le cosche criminali sono un nostro problema prima ancora dello Stato, non sono forme romantiche di avversione al potere costituito, sono cancri sociali che non possono vederci assumere una posizione mediana come se i due mali (lo Stato e in questo caso i Casamonica) si annullassero a vicenda. Non è un gioco a somma zero, anche se purtroppo, complice una certa opera d’ideologizzazione culturale mainstream, in questi anni è passato questo messaggio. Da Romanzo Criminale a Gomorra, l’idea che una certa forma di delinquenza organizzata para-mafiosa fosse preferibile alla legalità statale è passata non solo nelle periferie metropolitane, ma anche nella testa di tanti compagni. La legalità non è un valore in sé, è un “concetto-contenitore”, riempito di volta in volta dal rapporto di forze politico vigente, ma anche la più superficiale delle retoriche legalitarie non può che primeggiare di fronte all’egoismo proprietario imposto delle logiche mafiose. Sarà un’ovvietà, ma forse nel 2015 non lo sembra più.