In onore di Jim Thompson. Il più grande
Anno di anniversari questo 2017. Fra i quali, verranno certamente dimenticati i quarant’anni dalla morte di Jim Thompson (1906-1977). E’ stato, Thompson, il più grande scrittore noir americano del Novecento? Merita per noi il podio solamente per l’ignoranza che aleggia sul suo nome e sui suoi romanzi. Un’ignoranza che non ha impedito ad alcuni lettori importanti di rilevarne la grandezza, anzi, la supremazia di Thompson su un genere davvero particolare nella letteratura americana del XX secolo. Secondo Stephen King, “al meglio di sé, Jim Thompson era semplicemente il migliore, perché non era disposto a fermarsi”; per Joe R. Lansdale, “non esiste un altro autore paragonabile: Thompson faceva storia a sé”; anche Stanley Kubrick si accorse – davvero precocemente, ma i geni non sono tali per caso – della rivoluzione letteraria e culturale operata da Thompson. Parlando de L’assassino che è in me, Kubrick afferma che è “probabilmente il racconto in prima persona di una mente criminale più credibile e agghiacciante nel quale mi sia mai imbattuto”. Non a caso, lo volle come sceneggiatore dei suoi Rapina a mano armata e Orizzonti di gloria, quest’ultimo soprattutto opera monstre della cinematografia novecentesca.
Per cogliere il senso effettivo che ebbe il noir nell’America del secondo dopoguerra, dovremmo distinguere il tratto saliente che accomuna gran parte della produzione letteraria statunitense dagli anni Cinquanta in avanti. La letteratura americana successiva ai maestri dei primi quarant’anni (da Jack London a Ernest Hemingway, da Francis Scott Fitzgerald a John Steinbeck, per ricordarne alcuni) è in buona sostanza letteratura post-moderna (al netto di importanti eccezioni). E’ una letteratura alienata, distopica, anti-realista, neo-avanguardista, che produce meta-narrazioni e ideologie del riflusso, del disimpegno, della gioiosa rassegnazione. La Storia lascia il posto alle storie familiari e private, che subiscono senza interagire – se non intimamente – col corso degli eventi. Il noir americano è una risposta al bisogno di diversi autori di rimanere ancorati alla realtà, descrivendone le caratteristiche materiali, ad indagare sul riflesso che la realtà produce nelle relazioni umane, esplorando a sviscerando il rapporto corrotto tra società capitalista e perversioni umane. E’ letteratura sociale in assenza di letteratura sociale, di realismo e di epica. Non è un caso che gran parte di questi scrittori noir siano stati per una parte della propria vita, o dall’inizio alla fine, comunisti. E non comunisti in senso culturale. Veri e propri militanti del Partito comunista americano. Proprio come Jim Thompson. O come Dashiell Hammett, anche lui sul podio dei più grandi, non solo della letteratura di genere. Non solamente il noir ebbe la funzione di strumento di analisi della corruzione sociale. Anche la fantascienza assolse, in parte, a questo compito, sebbene nelle forme post-moderne di Vonnegut o Philip K. Dick.
Perché allora Thompson è così grande ed è stato così scientemente dimenticato, prima che Gallimard, e Stephen King dopo, lo recuperassero dall’oblio nel quale era finito? Probabilmente, perché Thompson era un autore sovversivo per grandi masse. Mica una cosa da niente, converrete. Era un autore da letteratura di serie c, da narrativa da edicola, e in Italia da giallo Mondadori. Era confinato nella ben misera posizione di scrittore destinato alla quantità più che alla qualità: i suoi libri non gli consentivano alcuna serenità economica, e l’unica possibilità era sfornarne il più possibile, meccanicamente. Per questo si adattò ai più svariati e degradanti lavori, più o meno legali (dal fattorino al trivellatore dei pozzi petroliferi, dall’operaio addetto alla costruzione di oleodotti a contrabbandiere d’alcol), dai quali apprese i processi materiali velati dalla narrazione americana. Le infinite opportunità e la mobilità sociale che cementavano il sogno americano della riuscita individuale significavano più prosaicamente, per Thompson, lo sfruttamento e l’autosfruttamento totalizzante, l’alienazione generalizzata, la violenza repressa, l’amoralità necessaria. Un calderone marcio in cui non esisteva bene e male. In cui il bene e il male erano la stessa cosa. Se nell’hard boiled hammettiano il ruolo del detective ricompone in qualche modo un quadro degradato di umanità corrotta (ma non nei racconti e romanzi del Continental Op, vertici della letteratura “comunista” di Hammett), Thompson spinge ai limiti estremi i caratteri originari del genere degli anni Venti e Trenta, varcando il confine della morale, smascherando la verità più intima della società americana degli anni Cinquanta: non c’è nessuna morale, perché non è possibile più alcun valore. Non è il delitto che macchia la concordia umana, ma la società che genera il crimine.
Nel noir thompsoniano non ci sono detective, altra distorsione del genere classico: c’è solo un paesaggio sociale che genera mostri. Seguendo Benjamin, “a ragione, è stato detto che tutti i grandi capolavori della letteratura fondano un genere o lo dissolvono: in una parola costituiscono un caso particolare”. Thompson fa proprio questo: dissolve un genere, lo stanco riprodursi di un hard boiled senza più disincanto hammettiano, inaugurando quel noir sociale che troverà seguaci in Europa e soprattutto nella Francia di Jean-Patrick Manchette.
Non c’è solidarietà, né salvezza, né fuga, né redenzione. Nel capitalismo amorale dell’american dream c’è posto solo per un razionale nichilismo. Non ci sono eroi: i protagonisti dei racconti sono i primi attori della degenerazione etica delle relazioni sociali. Non c’è empatia, men che meno simpatia, possibile. La lotta è tra due mali, e lo scontro è segnato da violenza, sadismo, alcol e perversione. I tutori della legge – siano essi giudici e magistrati, sceriffi o procuratori – sono i primi responsabili della corruzione. Tutto questo, che potrebbe apparire banale, così non era nell’America degli anni Cinquanta, dove sopravviveva la purezza ideologica dei rappresentanti delle istituzioni. All’istituzione corrotta fa da contraltare una popolazione incattivita, che bada unicamente al proprio tornaconto, alla propria sopravvivenza, sempre a scapito di qualcun altro, sempre a scapito del proprio simile. La truffa e il crimine non sono mai organizzati verso indeterminate entità astratte (la banca, lo Stato, la Polizia, eccetera), ma verso il prossimo, verso l’altro uomo: questa la sostanza dell’ideologia dell’american dream, che si traduce in una lotta dell’uomo contro l’uomo, nella competizione esistenziale e pervasiva, nel mors tua vita mea. E’ nichilismo, ma non indistinto. E’ la presa di coscienza che dentro la società americana non c’è possibile salvezza o verginità individuale. Inutile costruire storie dal lieto fine, dalla facile morale catartica: le storie di Thompson finiscono (quasi) sempre malissimo (laddove finiscono bene sono chiari i segni dell’intromissione “mass-culturale”). Il protagonista è peggiore dell’antagonista, l’epilogo non potrà che condurre alla rovina reciproca dei personaggi, sineddoche della rovina sociale in cui è immerso l’autore. Quanta siderale distanza dal giallo post-moderno, dalle crime story edificanti dei nostri giorni, dalla paccottiglia criminologica televisiva che, ribaltando apparentemente il topos classico dell’istituzione buona contro il criminale cattivo, ci fa amare i cattivi e odiare le istituzioni. Come se non fossero ambedue la stessa cosa.
Thompson viene dall’America profonda. Da quell’Oklahoma di campi di mais e pozzi petroliferi, conservatore e razzista. Nel suo peregrinare scandaglia le diverse forme dell’alienazione. Non c’è movente nel crimine, se non banalità sproporzionate alla perversione narrata. Il crimine non ha più bisogno di moventi credibili (l’arricchimento personale; la svolta lavorativa; una relazione amorosa; eccetera): è crimine e basta, svincolato da patologie rintracciabili. E’ fisiologia sociale. La narrazione procede quasi sempre in prima persona, attraverso i pensieri e le azioni del protagonista. L’indagine della mente è profonda ma mai atomizzata. E’ la natura sociale che emerge dal racconto della natura umana.
Si capisce il motivo per cui ad un certo punto questa letteratura, destinata al consumo sottoculturale di massa, entra in contraddizione con le premesse stesse di questa sottocultura. L’orizzonte consolatorio a cui aspira questa produzione industriale di immaginario pacificante cortocircuita con la tensione anti-moralistica e nichilista di Thompson. A una rapida gloria succede una rapidissima caduta nel dimenticatoio. Senza soldi né onori, allo scrittore non rimane che l’alcol e il ritiro. Morirà, d’alcol e di solitudine, in punta di piedi. Questo il destino degli autori veramente rivoluzionari. Segnaliamo in questo quarantennale dalla morte cinque romanzi degli oltre trenta scritti. Cinque romanzi da rileggere, da recuperare, alcuni da ripubblicare, giustamente introvabili nel declino culturale italiano: L’assassino che è in me; Una libertà molto condizionata; Diavoli di donne; Colpo di spugna; Un uomo da niente. Altri se ne potrebbero citare, certamente più famosi, come Gateway. Andrebbero ripubblicati tutti, non solo i tre che resistono nelle edizioni Einaudi Stile Libero. Sarebbe una piccola grande operazione culturale degna di questo anniversario.