La boxe proletaria nel ventre della bestia
Non è stato solo Lenny Bottai, sabato scorso a Las Vegas, a tenere alto l’onore della boxe antifascista. Anche Leonard Bundu ha cercato l’assalto al cielo pugilistico, sfidando per il titolo mondiale WBA Keith Thurman. Purtroppo anche per Leonard è andata male, sconfitto dopo una battaglia di dodici difficilissime riprese. La sconfitta non cancella però l’impresa, quella di andarsi a giocare il titolo in casa del favorito, in un contesto dove per vincere devi stravincere e non solo giocartela. Non è questo l’importante. Il fatto decisivo è che Lenny e Leonard hanno portato al grande pubblico il risultato di un lavoro di anni, quello dei compagni e dei proletari che da tempo hanno fatto della boxe uno dei terreni di socializzazione e di riappropriazione dei territori degradati delle periferie metropolitane. Soprattutto in questi ultimi anni la boxe è lo sport dei proletari, degli antifascisti, di chi lotta per le strade e sul lavoro. Lenny e Leonard sono i vertici di un movimento costruito nel tempo e con la fatica, ma che finalmente si impone come parte di una cultura umana più generale, inclusiva, edificante, spezzando quel pregiudizio culturale che vede nel pugilato uno sport per “picchiatori”, sovente “fascisti”, comunque violenti. Leonard Bundu, esattamente come Lenny Bottai, sono nostri eroi, figli del popolo, che si impongono sulle scena sportiva senza l’inutile carico di odio imposto dal racconto mainstream statunitense. Con il sorriso sulle labbra e la consapevolezza di essere non eroi individuali, ma vertici di un movimento e di una passione collettiva, fanno di più loro per la causa antifascista di tanti soloni della chiacchiera politica. Onore a loro, al loro coraggio e alla loro dedizione.