La costruzione dell’indignazione pubblica nella lotta di classe internazionale

La costruzione dell’indignazione pubblica nella lotta di classe internazionale

«Se non state attenti, i media vi faranno odiare le persone che vengono oppresse e amare quelle che opprimono», diceva con incorruttibile lucidità Malcom X. Ma è riguardo alle politiche internazionali del capitalismo che questa verità, oggi, assume i suoi tratti più smascherati. Crollato il recinto di categorie storico-politiche che perimetrava i campi di appartenenza del Novecento, la costruzione dell’opinione pubblica è oggi un campo decisivo nella strutturazione del consenso liberista. Purtroppo, è anche il terreno dove la sinistra sconta il suo ritardo più evidente, accodandosi di volta in volta alle retoriche mainstream mediaticamente veicolate. E’ un discorso che abbiamo fatto ennesime volte, ma su cui ci sentiamo di insistere per un semplice motivo: è nella lotta di classe internazionale, nella divisione liberista del mondo, nelle politiche imperialiste e/o neocoloniali, che oggi la sinistra è più debole. E, viceversa, sarebbe proprio dalla costruzione di un campo di resistenza internazionale che questa stessa sinistra potrebbe ritrovare un senso storico, quantomeno agli occhi di quelle classi diseredate della periferia globale. Perché, come scrivevamo recentemente a proposito del Venezuela, «c’è sempre una relazione dialettica tra la posizione che uno Stato prende nello scacchiere internazionale e le dinamiche di classe che si svolgono al suo interno». I diversi piani sotto cui si materializza la lotta di classe sono in realtà uno stesso piano: le ricadute sociali interne non sono altro che il riflesso del rapporti di forza complessivi, anche a livello internazionale. Non è uguale un mondo con il Venezuela socialista e un mondo senza, per fare solo un esempio recente, e questo si riverbera direttamente sulle nostre condizioni di classe.

Per più di un anno abbiamo assistito alla martellante campagna mediatica contro i bombardamenti russi in Siria, “colpevoli” – a sentire tg e giornali – di bombardare anche strutture civili.

 

Non è il merito della questione, in questo caso, a interessarci. Le versioni riportate sui media potrebbero essere anche tutte vere (figuriamoci). Il problema sta altrove, e precisamente nel doppio livello informativo che tali notizie assumono nella loro forma giornalistica, cioè nel loro racconto pubblico. La notizia dell’uccisione di 42 (quarantadue) bambini durante un bombardamento Usa in Siria non ha trovato alcuno spazio mediatico, nessuna indagine seriosa, non ha dato luogo ad alcun dibattito commosso sull’accaduto. Un trafiletto nelle pagine interne dei principali quotidiani chiudeva l’ansia di cronaca del giornalismo liberale. Eppure, alla morte di un (1) bambino da parte di presunti bombardamenti russi, la notizia apriva le prime pagine e i tg di ogni organo informativo, italiano e del resto d’Europa. Il problema non sta nella condanna o meno dell’episodio in sé, ma nella costruzione ideologica complessiva che questo contribuisce a formare: i russi (e Assad) uccidono i bambini, l’Occidente (gli Usa, la Nato, ecc) li difende. Le vittime russe sono sempre scientificamente ricercate con sadica brutalità; le vittime americane sempre effetti collaterali di una “giusta guerra”. A prescindere dai fatti, a prescindere dalla realtà, a prescindere soprattutto dagli interessi materiali in campo.

Ma in questi giorni il focus si è momentaneamente spostato in America Latina. Da mesi su tutti i quotidiani trova posto la conta dei morti del “regime chavista” del “dittatore Maduro”.

 

Tralasciamo la ricostruzione dei fatti, tralasciamo anche il merito dell’intera vicenda. Concentriamoci sulla capacità del sistema informativo-divulgativo di orientare le opinioni riguardo ai fatti internazionali. Tre giorni fa un’enorme corteo a Brasilia chiedeva le dimissioni del golpista Temer e il ritorno alla democrazia del Brasile. La manifestazione si concludeva con un morto e 49 feriti. Eppure, per tutto il sistema informativo nazionale (e occidentale), Temer non era “il dittatore”, e in Brasile non vigeva alcun “regime” da combattere. Anzi, la notizia veniva addirittura silenziata. Tutta la vicenda, nei pochi giornali che la raccontavano, veniva ricondotta a una sorta di “tangentopoli” brasiliana, incapace di riportare il contesto reale entro cui hanno preso forma quelle manifestazioni: il “golpe suave” contro Dilma Rousseff e il ritorno del Brasile al liberismo radicale. Se la protesta viene organizzata contro il socialismo (nel caso venezuelano), questa viene moltiplicata dagli organi di informazione, divenendo fatto politico e orientando le opinioni della popolazione; al contrario, se la protesta avviene contro il liberismo, semplicemente non c’è notizia. Nel migliore dei casi, una ricostruzione artificiosa e ridotta delle ragioni della mobilitazione.

Dovrebbero essere ovvietà, e purtroppo non lo sono. Scomparse le categorie storico-politiche di cui sopra, gli eventi internazionali vengono recepiti quasi esclusivamente tramite le lenti deformanti del giornalismo mainstream. Un racconto dei fatti in cui è la realtà a dissolversi, lasciando il campo alle categorie storico-politiche della borghesia: “diritti umani”, “libertà d’espressione”, “livello di democrazia liberale” costituiscono i parametri entro cui possono e vengono giudicati gli Stati di volta in volta necessari di adeguamento. Purtroppo, queste categorie borghesi sono state assunte ugualmente dalla sinistra, motivo per cui anche nel nostro campo il livello di democraticità (e “progressività”) di un processo politico viene stabilito in base alle categorie suddette: rispetto dei diritti umani, rispetto della libertà d’espressione, rispetto dei valori e dei meccanismi liberali. Ma questo consenso globalizzato è lo strumento di morte di ogni processo di emancipazione reale. Inutile stupirsi allora se agli occhi di qualche “barbaro mediorientale” l’Europa costituisce un blocco omogeneo di valori e di interessi. E’ così.