La costruzione ideologica dell’immaginario: mito e realtà della banda della magliana
Viviamo, secondo alcuni, in un’epoca caratterizzata dal superamento delle ideologie. Ad un novecento intriso dall’ideologizzazione di massa, ha fatto seguito il XXI secolo, era del post-ideologico. A detto di quasi tutti, una delle poche conquiste di questi anni.
Ora, secondo noi si tratta evidentemente di una amenità. Semmai, ad un secolo caratterizzato dal confronto e dallo scontro di differenti ideologie, è subentrata con il nuovo millennio un’era politica contraddistinta da una sola ideologia dominante. Una ideologia che, nell’arco di pochissimi anni, si è trovata senza più la controparte naturale; la dialettica ideologica che aveva caratterizzato gli eventi politici e sociali per più di un secolo è venuta improvvisamente meno. Dunque, libera di operare senza più venire a compromessi con chi le si opponeva nel nome di un’altra visione del mondo, questa forma ideologica dominante si è subito auto-rappresentata come sola ed esclusiva matrice concettuale dello sviluppo umano: in politica, rappresentata dal valore condiviso e assoluto della democrazia e del liberalismo; nel campo economico, dal valore anch’esso condiviso e assoluto del libero mercato, regolatore delle economie dei vari stati. Chi esce dai canoni di questa costruzione ideologica è emarginato dalla comunità internazionale, in vari modi e forme.
Per finire, l’ideologia dominante oggi si è auto-rappresentata soprattutto attraverso il mantra, ripetuto all’infinito, della fine delle ideologie. Il 1989 è la data della fine delle ideologie, della fine della storia. E’ evidente come questo concetto si rappresenti esso stesso come ideologia, qui intesa come falsa rappresentazione della realtà.
Detto questo, a cosa serve questa introduzione in un pezzo che parla della banda della magliana? Serve perché, proprio partendo dall’analisi del ruolo avuto in questi anni dalle fiction, e in particolare dalle numerose opere sulla banda della magliana, si può trovare conferma di come l’ideologia dominante del nostro tempo operi continuamente sulla costruzione di un immaginario che la sorregga concettualmente. Un immaginario che crei quell’humus mentale che porti anche inconsapevolmente all’appoggio del sistema attuale. Un po’ come quello che, in maniera più evidente, ha fatto Berlusconi prima di entrare in politica: crearsi un appeal mediatico derivato dalle sue trasmissioni e dai suoi mezzi d’informazione. Strumento con cui ha governato e governa tutt’ora le menti della maggioranza silenziosa degli italiani. Insomma, tramite lo strumento di trasmissioni apparentemente non politiche, il capo del governo ha creato in questi anni un sottofondo culturale che lo legittimasse al potere.
Ora, quello che il nano ha compiuto spudoratamente in questi anni avviene, in maniera meno esplicita, continuamente, senza che la percezione generale se ne possa accorgere. Il caso più evidente, in questi tempi, è proprio la prosopopea agiografica che ha caratterizzato i fatti della banda della magliana. Sembra inutile stare qui a ricordare cosa è stata la banda della magliana nel quindicennio che va dal 1975 al 1990: una organizzazione criminale mafiosa che, sorretta dagli apparati dello stato, ha annientato una generazione immettendo nella città di Roma valanghe di eroina e cocaina; una organizzazione mafiosa che controllava lo sviluppo edilizio abusivo che ha provocato la degenerazione amorfa delle periferie romane; una organizzazione mafiosa che controllava la politica romana, la prostituzione, i furti, i sequestri. Insomma, la mafia romana. Questa mafia de’noantri però dal 2002 ad oggi ha visto il succedersi di: un libro, due film, due fiction, vari approfondimenti televisivi e una serie speciale ancora in onda su Sky con le interviste ai personaggi reali della banda. Insomma, da semi sconosciuta fuori dal raccordo anulare la storia di questa organizzazione mafiosa è diventata il fatto culturale di questi anni. Ora, non ci sarebbe niente di male se tutti questi lavori avessero dato una lettura critica degli eventi, esattamente come avviene per tutti quei film, fiction, o documentari che narrano delle storie di mafia, o delle vicende della lotta armata (pensiamo ai film sulle brigate rosse), o alle altre vicende criminali. E invece quel libro, quel film e soprattutto quella serie televisiva hanno avuto il ruolo di completo sdoganamento di una associazione criminale: in questi anni la banda della magliana è divenuta fenomeno di costume: libri, gadget, magliette, accendini, interviste agli attori. Il tutto in chiave apologetica. Insomma, erano in fin dei conti dei bravi ragazzi di borgata. Mica erano terroristi. E’ stato proprio questo il danno maggiore prodotto in principal modo dalla fiction in questione: quella di far apparire agli occhi soprattutto dei giovani, ma anche di tutto un tessuto sociale periferico, quei criminali degli eroi. Degli eroi moderni, dei novelli Robin Hood, che lottavano contro lo stato e le guardie.
Quale altra rappresentazione dei fatti salienti della nostra vita nazionale ha avuto questo avallo incondizionato da parte di tutti i media mainstream? Avete forse visto qualche film o qualche fiction sulle brigate rosse dove queste erano i buoni e le guardie i cattivi? Oppure qualche film sulla mafia, non solo quei pochi lavori degni di nota, ma qualsiasi lavoro sulle mafie del sud dove in fin dei conti i mafiosi ne uscivano da bravi cittadini che si arrangiavano? Ci ricordiamo ancora oggi le mille polemiche pretestuose e strumentali all’uscita del film “Prima Linea”, dove addirittura il problema era l’attore Scamarcio, definito troppo bello per interpretare il ruolo di un terrorista; “avrebbe potuto suscitare empatia”, a detta del ministro dei beni culturali (!) Bondi (!). Oppure, ancora, avete mai letto, udito o visto qualche lavoro “di massa” sui movimenti degli anni settanta che non descrivesse quegli stessi movimenti come affini al terrorismo, che delineasse il profilo di quelle persone come degli spostati mentali, o al più come degli arrivisti politici? Ovviamente, no.
E’ evidente che quello che è stato prodotto è stata una operazione ideologica forse senza precedenti: lo sdoganamento culturale della criminalità comune, in funzione di contrapposizione alla partecipazione politica. Per semplificare, se fai politica e partecipi attivamente sei ad un passo dall’essere un terrorista, o quantomeno un radicale da debellare. Se invece ammazzi, spacci, sequestri, rapini, insomma se sei un criminale comune tutt’al più ti fai qualche anno di galera, ma hai comunque l’anima salva e la chiara possibilità di rifarti una vita in futuro, perché in fondo se rubavi lo facevi perché ne avevi bisogno. L’importante è non turbare l’ordine costituito, per il resto siamo tutti peccatori.
Proprio questa è la formazione dell’immaginario dell’ideologia dominante: quella per cui nei quartieri romani oggi ci si chiama “freddo” o “libanese”, con orgoglio, sentendosi superiori, sentendosi delinquenti. E se la delinquenza è sdoganata, che importa più se anche chi sta a potere ruba: in fondo lo facciamo tutti, non faremo certo del moralismo. Anzi, siccome chi sta al potere ruba di più e meglio, in fondo è quasi un modello da imitare.
A fronte di tutto questo, come ripetiamo da anni e come proviamo a fare nel nostro piccolo, dovremmo costruire un nuovo immaginario della sinistra, del conflitto, della lotta di classe. Rendere di nuovo appetibile l’idea che partecipare attivamente alla politica sia qualcosa di importante. Ridare un significato alla partecipazione politica che vada al di là della conquista dei diritti (ormai, tralaltro, esclusivamente civili), per renderci di nuovo competitivi. Oggi come oggi, siamo tagliati fuori dal mondo reale, anche per questo.