La FIOM e l’egemonia culturale
Quella di ieri è stata una delle più belle manifestazioni a cui abbiamo mai partecipato. Non solo per i numeri, che giustamente la FIOM non ha neanche azzardato a dare, ma che comunque ridicolizzano quelli espressi i giorni antecedenti il corteo sia da Maroni (30 o 40.000) sia quelli di Repubblica, che il giorno stesso già sentenziava “le 100.000 tutte blu in corteo”. No, i numeri erano importantissimi ma erano solo uno degli aspetti di questo corteo. Il fatto centrale è che è avvenuta una manifestazione di massa sul tema del lavoro, sul contratto nazionale, sulla difesa dei diritti conquistati in anni di lotte; e che tutto questo sia avvenuto in una manifestazione che ha tenuto dentro tutti i pezzi della sinistra, da chi condivide pienamente i programmi e gli obiettivi sindacali della FIOM a chi invece ne è molto lontano, forse anche antitetico. Ma questo ieri non si è notato, constatando invece una voglia di difesa e di cambiamento che è riuscita a tenere dentro tutto e tutti. Non che sia un valore in se l’unità, ma se questa avviene sotto la parola d’ordine della difesa del lavoro e della salvaguardia dei diritti allora non solo è un valore, ma in questo caso e in questa fase politica è un passo avanti non indifferente.
Tutto questo però è avvenuto non perché si sia risvegliata una particolare coscienza e vicinanza di classe ai lavoratori, né perché le condizioni materiali di vita e sul lavoro stiano peggiorando. Nel senso che tutto questo è vero ma non è il motivo che ha portato centinaia di migliaia di persona a Roma, visto che questo fenomeno e questa crisi politica italiana è in atto da decenni. Insomma, il malcontento non genera organizzazione e presa di coscienza, e di certo non genera quello che è avvenuto ieri. O meglio, lo genera solo in minima parte.
Quello che ieri si è ribadito con forza è l’egemonia culturale e politica che sta esercitando una organizzazione sulla politica italiana. L’unica organizzazione, non a caso un sindacato, che ha ancora le sue radici nella società e nel lavoro, che non si è fatto liquido, leggero o d’opinione. Che esercita egemonia perché è l’unica struttura di massa in Italia a stare nel lavoro e con determinate parole d’ordine, riformiste ma non liberiste o padronali. Perché anche i lavoratori del nord che votano lega lo fanno con la tessera della FIOM in tasca. Perché anche chi non ne condivide nulla della sua impostazione culturale ieri ha sentito la necessità di esserci. Perché anche di fronte all’attacco del padronato italiano capeggiato da Marchionne, appoggiato da CISL, UIL, UGL, Governo, PD, Media e parte della CGIL, questo sindacato invece di trovare l’escamotage per spostare il discorso facendo passare sottotraccia accordi anti-lavorativi ha deciso di opporsi mettendo in gioco tutto se stesso. Facendolo alle sue maniere ma generando un moto di protesta e condivisione che in Italia, su queste parole d’ordine, non avveniva da decenni. Probabilmente dalla stagione degli accordi del 1993, quella dove ai palchi sindacali si tiravano i bulloni e non uova, e nessuno si azzardava ad etichettare quei lavoratori come para-terroristi. Tanta acqua è passata sotto i ponti, ma in tutto questo stravolgimento culturale, politico, sociale ed economico che ha attraversato l’Italia, non era scontato credere che parole d’ordine come la difesa del contratto nazionale potessero avere ancora presa su grossi strati della popolazione; e invece la FIOM ha avuto il merito di andare allo scontro, e ieri come a Pomigliano, di vincerlo.
Quella di ieri, come ricordava il Corriere della Sera, non sarà tutta la società. Ma è quella parte della società che produce e lavora, e che con il suo lavoro mantiene tutto il resto della società improduttiva, a cominciare dai politici di professione che bivaccano in parlamento. Per quanto ci riguarda, quella di ieri era la parte migliore della società, quella che dobbiamo difendere e quella che, un giorno, ci porterà al cambiamento. Con buona pace dei Sacconi e dei Maroni di turno.