La lenta agonia dell’ipotesi socialdemocratica
“Siamo pronti a rimandare l’attuazione di alcuni impegni elettorali, se questo è necessario per dare fiducia ai nostri partner”. Anche prese con il beneficio d’inventario, le parole con cui il ministro greco Varoufakis rassicura le istituzioni UE rappresentano più una ritirata strategica che l’estremo tentativo di prendere tempo per rafforzarsi politicamente. Il tempo, però, si va esaurendo, e questo è un problema che riguarda non solo la Grecia o Syriza, ma il destino della sinistra in Europa. Per un verso, la parabola di Syriza sembrerebbe confermare quanto andiamo dicendo da qualche anno, non solo noi: ogni ipotesi socialdemocratica, prima ancora che per incapacità soggettiva di un ceto politico, è irrealizzabile oggettivamente. Questo discorso, che qualcuno ha scambiato per massimalismo – come se per noi non ci fosse differenza tra il neoliberismo sfrenato e un modello capitalista keynesiano – è in realtà il risultato di un ragionamento generale. Per darsi una politica coerentemente riformista (non stiamo parlando delle controriforme promosse dal “socialismo” europeo, ma una politica volta ad una effettiva redistribuzione dei redditi), servono determinati presupposti economici e politici che oggi non possono essere presenti, in Europa. E’ importante rilevare che questo discorso riguarda esclusivamente l’occidente neoliberista, cioè Stati Uniti e Unione Europea, non altri luoghi nel mondo. E’ una riflessione dunque che riguarda il nostro contesto, che è quello egemone globalmente e che cerca di affermarsi anche nei luoghi ancora non sottoposti a questo particolare modello di sviluppo.
Una politica socialdemocratica implica il ritorno all’impianto politico-ideologico dello Stato Nazione. Non basta la presenza di uno Stato minimo, simile a quel comitato d’affari di una borghesia transnazionale sempre meno legata a frontiere e confini di marxiana memoria. Serve riprendere in mano, da parte delle classi dominanti, il concetto di Nazione, cioè quel luogo politico entro cui includere una popolazione nazionale. Offuscati dalle retoriche anti-globalizzanti e presuntamente internazionaliste, non ci siamo accorti che l’unica classe coerentemente internazionalista, in questi anni, è stata proprio quella borghesia transnazionale che ha smobilitato ogni forma di “nazionalismo” in favore di una completa internazionalizzazione dei rapporti economici e quindi politici. Detto altrimenti, una politica socialdemocratica implicherebbe il rimpossessarsi, da sinistra, del concetto di Nazione, che non è lo stesso di “nazionalismo” ma che comunque è materia assolutamente liminare e complicata da maneggiare.
L’apparato ideologico-culturale nazionale è stato il campo di battaglia dello schema duale antitetico borghesia-proletariato. Consumato quel tipo di conflitto tra pari, la borghesia ha avuto mano libera per disarticolare un impianto che garantiva la mediazione politica tramite la contrattazione economica delle posizioni in campo. Se tale frame viene meno, viene meno il luogo dove condurre questa trattativa. L’abbandono della Nazione e lo smantellamento dello Stato economico non ha prodotto, con ogni evidenza, un passo in avanti nei rapporti politici generali, ma numerosi passi indietro. Non è dunque lo Stato ad essere venuto meno in questi anni, ma quell’apparato che concretizzava nella prassi quotidiana il concetto di Nazione che, come abbiamo detto, prevede intimamente la questione dell’inclusione. In effetti, le classi proletarie europee del XX secolo erano subalterne ma non escluse. Le organizzazioni politiche di classe erano in tutto e per tutto dentro i meccanismi di rappresentanza e anche, a volte, di gestione della cosa pubblica. Garantivano cioè un’inclusività di quelle istanze. Inclusività che veniva articolata in senso socialdemocratico consociativo, certamente, ma che rappresentava comunque gli interessi economici della classe.
Oggi le varie forme di proletariato sono non soltanto subalterne economicamente, ma escluse da ogni possibile rappresentanza politica. E questo fatto non è addebitabile unicamente all’incapacità dei dirigenti della sinistra di tradurre politicamente e organizzativamente le istanze di classe. C’è anche questo, ma non c’è solo questo. C’è un paesaggio politico che è mutato, trasformato radicalmente, che non prevede più quel luogo dove si esplicitava la mediazione, cioè un ambito nazionale fatto di istituzioni volte alla rappresentanza degli interessi. Oggi l’Europa va costruendosi come Stato ma non come Nazione. Non c’è, nel contesto europeista, la volontà di produrre quell’inclusività, e questo fatto produce l’affermazione di una borghesia, quella perdente dal processo di accentramento europeista, che sviluppa le proprie rappresentanze populiste radicali, espressioni di un soggetto sociale scaricato dalla borghesia egemone e sempre più in via di impoverimento.
Questo discorso si traduce, in pratica, nell’impossibilità per la sinistra riformista di realizzare politiche volte alla redistribuzione. Per farlo, dovrebbe riaffermare il carattere nazionale, dovrebbe cioè rompere coi vincoli transnazionali europeisti ricostruendo quei processi politici capaci di riattivare la mediazione. Ma questo vasto programma non si realizza con le riforme, ma con le lotte di classe, cioè con la capacità conflittuale di imporre un ritorno alla mediazione, pena la caduta di tutto il castello di carte su cui è basato lo sviluppo istituzionale ed economico dell’Unione Europea. Per tale ragione, una volontà di riforme sommata alla volontà di non rompere con la UE è una contraddizione in termini, perché riaffermare il carattere nazionale in un contesto post-nazionale provocherebbe un conflitto irrisolvibile.
Per tali ragioni Syriza è destinata alla sconfitta, così come saranno destinate all’impotenza tutte quelle forze politiche, quali ad esempio Podemos, che promuovono un discorso radicalmente riformista senza rompere con i vincoli esterni imposti dal sistema economico.