La pace è sempre un buon bottino
La riuscita delle manifestazioni di Roma e Milano di sabato è un segnale che non va lasciato cadere. Era maledettamente difficile sperare di fare qualcosa di più di mille persone, e invece ci siamo ritrovati nelle due città con cortei di 3000/4000 persone. Quasi diecimila persone sono scese in piazza sabato per gridare il proprio no alle guerre imperialiste. Cortei che si sommano alle due riuscite manifestazioni autunnali contro la Nato di Napoli e Firenze. Se pensiamo ai cortei degli anni Duemila contro la guerra, dove il movimento pacifista veniva indicato dal New York Times come “seconda superpotenza globale”, dove la media della partecipazione si aggirava sulle centinaia di migliaia e aveva la forza di imporre un punto di vista, ci rendiamo conto del punto zero in cui siamo. Eppure qualcosa si muove. Al di là del numero, la qualità dei soggetti scesi in piazza indica che la pace, nonostante tutto, è ancora uno degli argomenti più efficaci attorno a cui ricomporre, su degli obiettivi politici, compagni e situazioni altrimenti divisi dalle perenni beghe da fallimento storico in cui siamo immersi. La pace funziona, perché la guerra unilaterale dichiarata dall’Occidente alle popolazioni subalterne evidentemente non ha generato ancora quel consenso unanime che si aspettava. D’altronde, in tempi di crisi economica e di impossibile redistribuzione, creare consenso è una cosa molto complicata, per il capitale.
Il difficile, come suol dirsi, viene però ora. Quello di ieri non era un corteo sindacale, politico, militante, o pacifista. Era tutte queste cose insieme, e la forza (e novità) sta proprio nella moltiplicazione delle vertenze che assommava, riunite idealmente nella parola pace e contro la guerra imperialista. Non era la somma dei soggetti presenti, ma un corteo unitario composto da soggetti differenti e alcuni anche molto differenti. Se c’è una caratteristica che indica la riuscita politica di una manifestazione, è proprio la capacità di limare attorno ad un obiettivo le differenze che pure hanno un senso. Tenere unita questa composizione, farla camminare, espanderla, è la scommessa per i prossimi mesi. Se la manifestazione costituiva il tentativo di dare una scossa e un segnale, ora l’obiettivo dovrà essere quello di tornare nei territori, articolare un percorso di opposizione alla guerra capace di inserirsi nelle vertenze quotidiane allacciandole al piano generale dei rapporti politici. Non è poco, ma mai come oggi guerra esterna e guerra interna convivono e si relazionano. I soggetti sociali – migranti e autoctoni – sono gli stessi, così come simili sono le pratiche di esclusione e di legislazione speciale di cui sono vittime. La guerra pervade le nostre periferie, e questo fatto è paradossalmente più chiaro a chi le vive “a-politicamente” che a molti compagni che vorrebbero provare una relazione che è già percepita. Sin da oggi il lavoro sarà indirizzato proprio a veicolare il tema della pace nelle periferie, attraverso assemblee popolari in determinati quartieri ieri scesi in piazza. Se il vero segno dei tempi in cui viviamo è l’assenza di una alternativa credibile, la lotta per la pace e contro le politiche neocoloniali dell’Occidente può divenire lo strumento attorno a cui realizzare e proporre questa “alternativa di civiltà”. Il difficile, come detto, inizia ora.