La protesta della birra?
«La protesta della birra», «caroselli con gli alcolici in mano», una «folla variopinta», coppiette che si baciano sulla bocca, ambientalisti che vogliono difendere 600 alberi: è a questo che i media italiani riducono la rivolta che negli ultimi giorni ha preso corpo in varie città della Turchia, descrivendola come un fenomeno di costume. Una rivolta che ha, al momento, un bilancio di 1.000 feriti (alcuni gravissimi, colpiti alla testa da lacrimogeni), 1.700 arrestati e almeno 2 morti (secondo la certamente poco rivoluzionaria Amnesty International; l’associazione che riunisce i medici turchi parla invece di 4 vittime) viene così sminuita e ridicolizzata: basti pensare che secondo il «Corriere della sera», che agisce come organo di diffusione delle veline del governo turco, ci sarebbero stati “solo” 79 feriti (di cui 26 agenti di polizia).
Ancora più significativo, poi, che i due principali quotidiani (online e non) italiani, «Repubblica» e «Corriere», abbiano pubblicato due articoli identici (come mostrano gli screenshot qui sotto), riprendendo evidentemente una nota di agenzia senza ritenere necessaria alcuna ulteriore spiegazione. Insomma, è quasi impossibile per un lettore italiano capire realmente quanto sta avvenendo in Turchia nelle ultime ore. Ovviamente non si tratta di un caso: il governo neoliberista-islamista di Erdogan è uno dei più fedeli alleati dell’Occidente (oltre che dei “ribelli” siriani…). Un assaggio dell’assoluto silenzio in Italia sulle politiche repressive messe in campo dal governo turco contro gli oppositori l’avevamo già avuto, del resto, qualche mese fa, quando nel settembre scorso la polizia turca aveva arrestato e torturato in modo brutale due musiciste del Grup Yorum (vedi), un gruppo molto noto dell’estrema sinistra turca. In particolare, alla cantante era stato distrutto un timpano, alla violinista rotto un braccio: i media italiani, però, avevano taciuto, preferendo prestare attenzione solo alla repressione (vera o presunta…) contro le opposizioni solo quando avvengono in paesi non allineati all’Occidente.
La repressione nella filoccidentale Turchia – dove negli ultimi mesi sono state uccise decine di militanti del Pkk ed arrestate decine di militanti della sinistra radicale turca (basta dare un’occhiata alla cronologia ragionata del periodo ottobre 2012-febbraio 2013 pubblicata sull’ultimo numero di “Senza censura” in cerca di quanto è avvenuto in Turchia) – non è ritenuta degna dell’attenzione dei media italiani. Gli stessi media che hanno enfatizzato ogni “primavera araba” ed esaltato ogni “ribelle” libico o siriano (al pari di Erdogan, tra l’altro…) ora mettono in ridicolo i movimenti turchi, riducendoli a giovani desiderosi di bere birra senza restrizioni (desiderio che ci sembra legittimo, tra l’altro…).
A leggere i comunicati delle piazze turche che si sono sollevate negli ultimi quattro giorni (leggi), le cose stanno però diversamente:
Dal parco la resistenza ha travolto piazza Taksim, e da Piazza Taksim via verso il resto del paese, finchè Gezi è diventato per tutti noi lo spazio in cui tirar fuori tutta la rabbia contro chiunque voglia imporci come vivere nella nostra città. […] La lotta per il parco di Gezi ha fatto scattare la rivolta giovanile di almeno due generazioni cresciute sotto i governi autoritari di Recep Tayyip Erdoğan e le imposizioni dell’AKP. Sono i figli delle famiglie sfrattate da Tarlabaşı in nome della speculazione edilizia, sono gli operai licenziati in nome della privatizzazione, i precari schiacciati ogni giorno sotto la ruota del profitto. Le lotte a venire faranno tesoro di questa rabbia. Ma c’è molto di più. La resistenza per il parco di Gezi ha cambiato lo la stessa definizione di quel che chiamiamo spazio pubblico, perché la battaglia per il diritto a restare in piazza Taksim ha stracciato l’egemonia del vantaggio economico come regola morale. Ha respinto il piano di riqualificazione col quale l’AKP avrebbe voluto sconvolgere il ruolo sociale dei nostri spazi urbani, cambiare le regole di come viviamo la nostra città, e a quale prezzo, e con quale estetica. Recep Tayyip Erdoğan ha provato a imporci la sua idea di piazza, ma oggi quello che è piazza Taksim lo abbiamo deciso noi cittadini: Taksim e Gezi park sono i nostri spazi pubblici.
Se la mobilitazione è indubbiamente iniziata a difesa del parco Gezi, che il governo vuole abbattere per costruire al suo posto un enorme centro commerciale e una (altrettanto enorme) moschea, si è poi estesa andando a contestare interamente il regime di Erdogan (al potere dal 2002), un mix di neoliberismo sfrenato, islamismo bigotto, autoritarismo, politiche speculative, repressione e filo-atlantismo. Ed è stato così che quando, venerdì mattina, il governo ha mandato polizia e bulldozer a sgomberare violentemente le centinaia di manifestanti che si erano radunati da tutta la settimana nel parco per impedirne l’abbattimento che la mobilitazione si è allargata, andando a contestare ogni aspetto dell’operato di Erdogan e del suo partito, l’Akp. Come si può leggere in un interessante articolo di Marco Santopadre su Contropiano, infatti, Erdogan si è fatto promotore
di uno tsunami edilizio e finanziario che in pochi anni ha completamente trasformato il volto dell’antica metropoli sul Bosforo. Su Istanbul sono piovuti miliardi di metri cubi di cemento, e la città si allarga ogni anno di qualche chilometro estendendosi in maniera tentacolare in tutte le direzioni. Lo skyline dei quartieri alti svetta di sempre più numerosi grattacieli, mentre il prezioso centro della città vive un processo di gentrificazione senza freni. Prima di Gezi Park, a due passi dalla centralissima Piazza Taksim, era toccato al quartiere di Tarlabasi i cui abitanti – per lo più Rom – sono stati cacciati e le loro case sventrate e rase al suolo per far posto a nuovi edifici destinati alla classe media fedele alle aspirazioni da califfo di Erdogan. Ma non è che l’inizio: nel giro di pochi anni Istanbul distruggerà e ricostruirà un terzo delle sue case, avrà un nuovo enorme aeroporto – il ‘più grande del mondo’ – una nuova ‘enorme’ moschea con i minareti più alti del pianeta, un nuovo ‘canale di Panama’ che sdoppierà il Bosforo, un terzo ponte fra Asia e Europa. Con una pioggia di miliardi che naturalmente fa gola a tanti e che si accompagna ad una islamizzazione neanche più tanto strisciante della finora multiculturale, multietnica e tollerante metropoli.
Si tratta, a ben vedere, di una mobilitazione per difendere quello che David Harvey (e molti altri prima di lui) chiama «il diritto alla città», ovvero il «rivendicare una forma di potere decisionale sui processi di urbanizzazione e sul modo i cui le nostre città sono costruite e ricostruite, agendo in modo diretto e radicale» (D. Harvey, Il capitalismo contro il diritto alla città, Ombrecorte 2012, p. 9). Il fenomeno della gentrificazione, del resto, ha già preso corpo negli Stati uniti e in gran parte d’Europa: in moltissime città, le classi popolari sono state espulse dalle zone centrali (o da periferie ritenute “interessanti” in quanto oggetto di rivalutazione e speculazione economica) in seguito ad interventi di privatizzazione, restauro, riqualificazione, miglioramento urbano che fanno aumentare il costo della vita in quelle zone. In queste zone il capitale in eccesso viene investito con forme speculative in grandi progetti infrastrutturali (autostrade, alta velocità, ecc.), in centri commerciali, aeroporti, parchi scientifici e strutture ricreative di ogni tipo, che modellano e cambiano gli stili di vita: la qualità della vita urbana e la città stessa diventano merci riservate a turisti e benestanti.
In Turchia, nella lotta per il parco Gezi iniziata da ambientalisti, studenti, promotori di comitati di quartieri, sono state così coinvolte decine di migliaia di persone di diverse connotazioni politiche (comunisti, anarchici, kemalisti, socialdemocratici), i sindacati, la minoranza curda, gli ultras e moltissimi semplici cittadini esasperati dalle politiche del governo. Come ha scritto, ancora, Marco Santopadre (leggi),
contro Erdogan e l’Akp si stanno coagulando, con la protesta del Gezi Park a fare da detonante, diverse proteste: quelle contro le restrizioni alla vendita degli alcolici; quella contro le restrizioni al diritto di aborto e di contraccezione per le donne; quella contro la devastazione ambientale; quella contro un modello economico liberista e autoritario in campo sociale e sindacale; quella contro la repressione delle minoranze etniche, culturali e religiose; quella contro l’interventismo di Erdogan nei confronti di un paese, la Siria, da molti turchi considerata un paese fratello.
La repressione del governo non ha esitato a colpire duramente, dando vita ad un’estesa guerriglia urbana (ad esempio, vedi, vedi e vedi; per una carrellata di foto si può vedere qui). Contro i manifestanti sono stati utilizzati gas lacrimogeni proibiti (per ammissione dello stesso Erdogan, che ha parlato di errore) – tra cui alcuni di colore arancione (vedi) che, oltre ad essere più potenti anche del cs, avrebbero lo scopo di sporcare i manifestanti per renderli riconoscibili, facilitandone l’arresto anche nelle ore successive agli scontri –, proiettili di gomma, granate stordenti, taser, idranti (vedi). Si è giunti, in alcuni casi, anche a sparare (vedi). Il tutto nel silenzio dei media turchi, che almeno nella giornata di venerdì hanno continuato impassibili la loro programmazione. Le notizie, del resto, si sono diffuse con molta difficoltà anche per l’oscuramento dei social network e le difficoltà nelle comunicazioni telefoniche. La mobilitazione si è poi estesa, tanto nella giornata di venerdì quanto in quella di sabato, ad Ankara – dove era già prevista una manifestazione contro i limiti imposti dal governo islamista alla vendita di alcolici – e in decine di altre città turche, con milioni di persone scese in piazza: secondo lo stesso governo, negli ultimi 4 giorni si sono avute 235 manifestazioni. Ovunque la repressione è stata durissima e feriti e arrestati si sono contati a centinaia. In alcuni casi l’esercito – tradizionalmente laico e ostile al governo di Erdogan – si è schiarato accanto ai manifestanti (secondo alcune fonti greche, alcuni militari avrebbero anche distribuito maschere antigas ai manifestanti).
La richiesta che ha preso corpo con sempre maggiore forza è quella di dimissioni di Erdogan e del suo governo, che invece ha risposto che non rinuncerà ai suoi progetti. Al momento la situazione sembra tornata relativamente tranquilla, con migliaia di persone che presidiano ancora piazza Taksim, ma gli eventi di questi ultimi giorni dimostrano come sempre più spesso i movimenti urbani costituiscano minaccia potentissima per il sistema neoliberista. Non è un caso che, come dimostra il progetto Nato Urban operation in the year 2020, si stia pensando a come affrontarli con l’esercito.