La Resistenza “sparita”

La Resistenza “sparita”

 

L’ultima polemica prepasquale – relativa alla presunta scomparsa della Resistenza dai nuovi programmi scolastici dei licei (leggi la bozza della discordia e la polemica su di essa) – si è rapidamente risolta:  il Ministero dell’Istruzione non solo  ha confermato che lo studio della Resistenza è importante ed è previsto dalle nuove Indicazioni nazionali, nell’ambito della storia della seconda guerra mondiale e della nascita della Repubblica (leggi), ma ha anche deciso di esplicitare nei nuovi programmi scolastici il punto “L’Italia dal Fascismo alla Resistenza e le tappe di costruzione della democrazia repubblicana” (leggi). Niente di nuovo sul fronte occidentale, potrebbe dire qualcuno.

Il meccanismo massmediatico e pseudo politico, ormai ben oliato, ha funzionato benissimo anche questa volta: direttiva superficiale proveniente dal governo, sdegno unanime da parte dell’opposizione – compresi quanti, come l’eurodeputata dell’Italia dei valori Sonia Alfano (leggi) non disedegna di partecipare a conferenze organizzate da Forza nuova accanto a Roberto Fiore (leggi) –, qualche ora di polemica politica, comunicato indignato e preoccupato dell’Anpi  (leggi), “mobilitazione” su facebook, marcia indietro del governo.

Potrebbe sembrare inutile parlarne, a faccenda conclusa, ma la vicenda si presta secondo noi ad alcune interessanti considerazioni. Prima di tutto, dobbiamo constatare come nel 99,99% dei casi ogni polemica messa su dall’opposizione parlamentare (o “ex-parlamentare”) sulle questioni riguardanti la Resistenza e l’antifascismo siano quasi sempre fuori tempo massimo o comunque sproporzionate rispetto ai fatti, salvo poi non dire nulla sulle questioni veramente importanti. Un sintomo di questo atteggiamento si era già avuto l’anno scorso, con la polemica nata intorno all’infame tentativo di alcuni deputati di equiparare, a livello pensionistico, repubblichini e partigiani (leggi): tentativo infame e immorale, appunto, ma solo ultimo di una serie lunghissima – si contano decine e decine di proposte di legge – che è iniziata nei primi anni dell’Italia repubblicana. Bisognerebbe per questo tacere, far finta di nulla? Ovviamente no, meglio tardi che mai. Ma questo genere di questioni andrebbero affrontate in modo diverso: non si possono ridurre alla polemica politica e all’emergenza del momento, non si possono isolare in un’opposizione di facciata ai singoli provvedimenti, per poi scordarsene il giorno successivo alla marcia indietro del governo. Sarebbe bene, piuttosto, analizzarli in un’ottica complessiva, mostrarne il senso nascosto. Si tratta di temi che investono profondamente il clima culturale italiano, che investono la nostra memoria storica, che colpiscono profondamente quell’antifascismo culturale che consideriamo uno dei tre aspetti fondamentali dell’antifascismo. Non possono considerarsi esauriti dopo qualche ora.

Veniamo comunque al caso specifico, ovvero l’insegnamento della storia nelle scuole italiane. Se anche i collaboratori della Gelmini non avessero fatto marcia indietro, nel caso specifico non sarebbe ovviamente cambiato niente nei programmi scolastici e nel loro svolgimento: il capitolo riguardante la Resistenza sarebbe stato affrontato – come si fa di solito – all’interno del capitolo dedicato nei manuali alla Seconda guerra mondiale. Ad esempio, nel manuale Giardina-Sabbatucci-Vidotto, che è uno dei più diffusi in Italia (nelle scuole e all’università), la Resistenza viene trattata in un paragrafetto intitolato “La campagna d’Italia, la caduta del fascismo, la Resistenza italiana” all’interno del capitolo sulla seconda guerra mondiale: in totale si parla della Resistenza per 30 righe. Del resto, tutto ciò sarebbe perfettamente in linea con le opinioni di quanti considerano la Resistenza solo ed esclusivamente come guerra di liberazione nazionale contro il “nazi-fascismo”, eliminando da essa ogni connotato di guerra di classe, quasi che l’antifascismo fosse sorto all’improvviso, solo come opposizione all’occupazione nazista. E a questa riflessione se ne lega immediatamente un’altra: perché a scuola non si parla, se non per qualche accenno sommario, dell’antifascismo prima, e soprattutto durante, il fascismo? Perché la storia dell’antifascismo – antifascismo di classe, di comunisti e socialisti in primis, che hanno pagato duramente le loro scelte durante il regime – è stata ridotta alla Resistenza, momento quasi unanime di riscossa patriottica e nazionale? Perché nessuno ha fatto mai notare questa mancanza?

Un’ulteriore considerazione verte sull’effettivo senso dell’“omissione” nella bozza dei nuovi programmi scolastici presentati dal Miur. È vero che probabilmente questa omissione non celava alcun intento censorio: del resto, come sarebbe possibile parlare di seconda guerra mondiale senza parlare della Resistenza? Come sarebbe possibile cancellare quell’inalienabile diritto che si chiama “libertà di insegnamento” e che permette ai professori di insegnare quello che vogliono? E dove sono, a proposito, i docenti di storia, che sono coloro che con più forza dovrebbero riaffermare ora questo loro diritto, contrastando così quanti li vogliono ridurre a meri ripetitori di vulgate imposte dal potere politico?

Non esplicitare il riferimento alla Resistenza, tuttavia, mira evidentemente a far diminuire nell’immaginario collettivo l’importanza di un momento fondante della storia italiana, a sottrarre valore ad essa. Anche se si potrebbe notare che neanche nella Costituzione nata dalla Resistenza è scritta la parola “Resistenza”, come non è scritta neanche la parola “antifascismo”, l’intento dell’omissione dai programmi scolastici è ovviamente quello di farla passare in secondo piano. Ma è la prima volta? La risposta è tragicamente negativa. Basta dare un’occhiata ai programmi degli istituti tecnici industriali, in vigore dal marzo 1994 (leggi) – quando ministra della pubblica istruzione del governo Ciampi era Rosa Russo Jervolino – e ci si rende conto, infatti, che anche in questo caso le parole “Resistenza” e “antifascismo” non sono citate. Stesso discorso per gli agrari (leggi) e per i commerciali (leggi): perché nessuno ci ha costruito una campagna sopra? Forse che gli studenti dei tecnici valgono di meno di quelli dei licei? Perché nessuno si è preoccupato delle loro lacune storiche? Forse che ancora si pensa, come ai tempi di Gentile, che solo dai licei venga fuori la classe dirigente del futuro?

Ma sono questi i veri problemi? Noi crediamo di no, crediamo che si tratti di qualcosa di molto più profondo e che scagliarsi solo contro i singoli provvedimenti – per quanto giusto – non sia sufficiente. Il mondo della scuola, l’insegnamento, fanno ovviamente gola a tutti coloro che sperano di poter plasmare le coscienze delle persone finché ancora sono giovani, in modo da renderle acritiche nel futuro. Ne è un esempio recente una raccomandazione al Governo approvata dalla Commissione cultura della Camera dei deputati che richiede che i «testimoni» siano gli unici autorizzati a parlare nelle scuole di foibe ed esodo (leggi): si tratterebbe, se venisse approvata, di una vera e propria espulsione degli storici dalla divulgazione storica e dall’istituzione scolastica. Ma nessuno, quando questa raccomandazione è stata approvata nello scorso febbraio, ha fatto nascere polemiche indignate. Eppure si tratta dello stesso tentativo di mettere le mani sulle conoscenze e sullo spirito (a)critico da trasmettere ai giovani. Ed è da questo punto di vista, più profondo, che andrebbe analizzata anche la questione della presenza della parola “Resistenza” nei programmi, senza ridurla all’estemporaneità della polemica politica. Senza considerarla solo come un altro capitolo chiuso del dibattito politico.