La sinistra e l’eterno ritorno dei fronti popolari
Se c’è un aspetto della sinistra che ha attraversato indenne tutto l’arco del Novecento, che si è ripresentato intatto in questo decennio degli anni Duemila, e che sembra essere sempre in auge, questo è l’eterno riproporsi della strategia del fronte popolare. Una volta individuato il principale nemico elettorale, la sinistra comunista, poi postcomunista, poi ex comunista, poi anticomunista, ha sempre riproposto, tale e quale e senza qualsiasi ragionamento ulteriore, la teoria del blocco politico ampio ed eterogeneo. Un blocco politico che contenesse tutto ciò che si opponeva elettoralmente all’avversario di turno, snaturando obiettivi e identità politiche in favore dell’eventuale successo elettorale. Il tentativo di ripetere la vittoria elettorale dei fronti popolari francese e spagnolo degli anni trenta, e l’unità d’intenti militare della resistenza fra PCI e DC, la dice lunga sulla capacità di adattarsi alle realtà della sinistra socialdemocratica europea guidata per lunghi decenni dai partiti comunisti legati prima alla Terza Internazionale, poi resi indipendenti e sempre più moderati fino allo sbraco finale.
Quello su cui però sarebbe interessante ragionare è come la tattica dei fronti popolari, decisa dal congresso della Terza Internazionale del 1935, costituiva appunto una tattica. Lo slittamento da tattica contingente a strategia perenne rappresenta secondo noi il punto d’inizio dello snaturamento delle sinistre comuniste nei vari paesi europei occidentali, giungendo conseguentemente alla strategia del compromesso storico prima e al ripudio della lotta di classe e della vicenda politica novecentesca poi.
Infatti, la tattica dei fronti popolari rappresentò la conseguenza di un processo storico che non si è più riproposto dal secondo dopoguerra in poi, che ebbe un senso politico in quel frangente particolare e che smise di averlo con la fine della guerra e l’inizio della politica dei blocchi contrapposti. Il tradimento dei partiti occidentali, favoriti in questo senso dallo snaturamento e dal progressivo svuotamento rivoluzionario dell’esperienza sovietica, è stato proprio quello di far perdurare una tattica che non aveva più alcun senso materiale, convincendo le masse vicine ai partiti comunisti della giustezza di un’esperienza che invece non era più riproponibile in un contesto storico profondamente cambiato. D’altronde, e soprattutto, neanche per il gruppo dirigente sovietico, che si trovò nella condizione di dover escogitare tale tattica, questa doveva sopravvivere alla contingenza del momento. E invece la tattica diventò la strategia, che i partiti europei promossero per tutto l’arco del novecento, con uno slittamento sempre più marcato col passare degli anni. Strategia di cui oggi si vedono i frutti. Ogni partito politico presente in parlamento (tranne il M5S e SEL, che non sono dei partiti) è una filiazione quasi diretta di posizioni politiche espresse dalle varie correnti democristiane. Infatti la DC costituiva l’esempio di fronte popolare racchiuso in un unico partito, nella quale convivevano una posizione di sinistra sociale, rappresentata dai Dossetti e dai La Pira; una posizione di sinistra riformista, rappresentata dai Cossiga; un centro politico, rappresentato da De Gasperi e Aldo Moro; una destra più o meno “presentabile”, compattata intorno alla figura di Andreotti.
Quello che vogliamo affermare insomma è questo: la tattica dei fronti popolari, promossa dall’Unione Sovietica in un contesto storico di attacco a tutto campo verso l’esperienza comunista, serviva per arginare uno scontro politico e militare potenzialmente mortale. Salvare quell’esperienza era divenuto l’obiettivo politico principale del comunismo internazionale, e una volta alleatasi con la Francia e l’Inghilterra, non aveva più senso combattere quelle posizioni all’interno dei singoli paesi. Se a livello internazionale andava bene una alleanza tattica con le democrazie liberali per sopravvivere all’attacco dei fascismi, anche a livello elettorale nazionale questa alleanza poteva essere riprodotta, o quantomeno affievolita la retorica del “socialfascismo”. Questa tattica, sconfitti i fascismi e ripristinata una situazione di apparente normalità, non aveva più senso.
Una volta scongiurato il pericolo nazifascista, il principale nemico dell’esperienza socialista nel mondo divennero le democrazie liberali, rappresentati a livello internazionale dalla NATO e dagli Stati Uniti. Che senso aveva allora una retorica politica di alleanza con “tutte le forze popolari”, se proprio parte di quelle forze “popolari” erano il nemico contro il quale organizzare le proprie forze?
Perché queste riflessioni oggi? Perché anche oggi, immutabile, viene riproposta la strategia del fronte popolare contro il nemico elettorale di turno. A livello nazionale Berlusconi, a livello romano Alemanno. Non curandosi di qualsiasi presupposto di coerenza politica, di salvaguardia del proprio bacino sociale di riferimento, della propria appartenenza di classe, le sinistre di ogni colore e posizione continuano nel cercare voti secondo la stanca retorica del “tutti contro il male assoluto”. Non comprendendo che il male assoluto, se vogliamo adeguarci allo stesso lessico, sono proprio quelle forze politiche con le quali ci si allea elettoralmente, che si contribuisce a far vincere, e che dovrebbero essere invece il nemico principale, quantomeno il principale nemico di classe.
Se contro il liberal-liberista Berlusconi la sinistra si allea con altri liberal-liberisti, le opzioni politiche a livello elettorale si condensano in una sola: l’idea di una democrazia liberale di mercato contro quella di una democrazia liberale di mercato. Alla fine, dunque, si tratterebbe solo di scontro fra due classi dirigenti politiche avulse dalla realtà e appartenenti allo stesso ceto sociale e portatori della stessa visione del mondo.
Ecco un’altra ragione per cui è irricevibile la proposta di alleanza contro il nemico di turno. Perché quello che noi definiamo nemico di turno non è lo stesso che viene definito dalla classi politiche del centrosinistra. Per essere ancora più chiari, nel nostro paese il problema in questo ventennio non è stato Berlusconi, così come in questa città il problema non è Alemanno. Semmai, è l’assenza di ogni alternativa all’unica retorica dominante, che ci dovrebbe far preferire un candidato piuttosto che un altro solo perché più simpatico o più presentabile. In questo senso, Marino e Alemanno sono la stessa opzione politica, così come costituiscono la stessa opzione politica Letta, Monti, Bersani, Berlusconi e Casini. Che poi umanamente le varie figure non sono identiche e sicuramente un Bersani, per dire, è più presentabile di un Berlusconi, non modifica di una virgola il problema politico che sta alla base di questo ragionamento.
Se proprio dei paralleli storici vogliamo fare, sembrerebbe essere davvero tornato il tempo del socialfascismo, e cioè di quella posizione politica che caratterizzò la Terza Internazionale dal 1919 al 1935: democrazia liberale e fascismo sono due aspetti di una stessa medaglia, e non si può combattere l’uno senza combattere anche l’altra. Le uniche alleanze possibili sono quelle di classe, e l’unica politica possibile dovrebbe essere quella di contrapporsi (intelligentemente e senza trasformare anche questo ragionamento in stanco meccanicismo) a tutte e due, senza distinzioni di sorta nella propria strategia politica. D’altronde, era la posizione che i movimenti rivoluzionari degli anni settanta contrapponevano alla retorica del PCI. Che gli sviluppi di quei movimenti oggi si siano incontrati con quelli del fu PCI, ci racconta molto di noi stessi e delle nostre vicissitudini politiche.