La strage di Gaza e l’impunità sionista
(Foto di Yasser Qudih, fotografo palestinese)
La strage di donne e uomini palestinesi di due giorni fa rappresenta l’ennesimo punto di non ritorno di una situazione in cui la prevaricazione terrorista di Israele viene taciuta e tollerata, in ossequio al nuovo piano per il Medio Oriente promosso dall’amministrazione Trump e applaudito dai fidi soci di affari sauditi. Gaza ha raccolto 61 morti e oltre 2500 feriti nella sola giornata di lunedì: mentre a Gerusalemme iniziavano le cerimonie per l’insediamento della nuova ambasciata USA, fortemente voluta da Trump come prova di forza e risolutezza nella partita a scacchi con la Russia sull’intera area, l’esercito israeliano apriva il fuoco in maniera impunita, soffocando nel sangue la rivolta del popolo palestinese alla vigilia della Nakba. 101 morti e oltre 10 mila feriti negli ultimi 40 giorni: questo il prezzo che ha dovuto pagare la popolazione palestinese per aver messo in moto la Great Return March, una serie di manifestazioni partite con i venerdì della rabbia e con la grande adunata alla frontiera che divide la Striscia di Gaza da Israele lo scorso 30 marzo (14 morti, 110 feriti), “giorno della terra” che omaggia il ricordo di un altro, ennesimo massacro di palestinesi – quello del 1976, a seguito di proteste nata per l’ingiusto esproprio delle terre.
Da un punto di vista squisitamente politico, è vero che la prova di forza di Trump e la scellerata proposta di spostare la sede diplomatica a Gerusalemme rappresentano la fine di un’era di trattative in cui comunque l’autodeterminazione del popolo palestinese non è mai stata messa al centro del reale dibattito internazionale: si è trattato per lo più di una sterile ripetizione di slogan lasciati poi su strade listellate di sangue nel corso degli anni. Eppure, la provocazione di Trump – compiuta in ogni sua parte lunedì scorso – significa anche solo simbolicamente l’ufficiale supremazia israeliana su una contesa lunga 70 anni.Una supremazia garantita da quella stessa potenza mondiale che, pur finanziando Israele e rendendolo attore garante di un equilibrio di parte in Medio Oriente, si è sempre presentata agli occhi dell’opinione pubblica come mediatrice e parte in causa nei difficili negoziati degli ultimi 30 anni. La scelta di Trump, il nuovo corso che sta imprimendo alla storia del mondo arabo, è stato però suggellato non dalla cerimonia di Gerusalemme (tra l’altro disertata praticamente da ogni rappresentanza diplomatica, fatta eccezione – per citarne alcune – per Austria, Ungheria, Romania e Repubblica Ceca tra gli Stati membri dell’UE) ma da una strage che anche molti governi occidentali fanno fatica a metabolizzare e a giustificare (o minimizzare) agli occhi della propria opinione pubblica.
Quello che infatti non è possibile ignorare oggi (eccezion fatta per il nostro paese, dove la propaganda sionista si è presentata lunedì mattina in maniera smaccata e provocatoria sulle pagine del Corriere con un imbarazzante articolo di Bernard-Henry Lévy sulle “Settanta ragioni per celebrare e amare Israele” ma soprattutto con un’indegna e revisionista graphic novel di Cinzia Leone, in cui Israele viene dipinto come vittima dell’intero mondo arabo che si diverte a lanciare razzi da ogni posizione) è la progressiva perdita di significato politico del termine sovranità quando applicato alla fattispecie del Medio Oriente. La sovranità decisionale dell’Autorità Palestinese non è mai stata riconosciuta da Tel Aviv, se non formalmente in occasioni di kermesse patinate e illuminate a giorno dai riflettori della stampa internazionale. Allo stesso modo, invece, la sovranità di Israele rappresenta un curioso caso di studio nel diritto internazionale: uno stato impunito che perpetra quotidianamente una politica terroristica finalizzata all’estinzione sostanziale della popolazione palestinese; uno stato impunito che sulla base di un presunto allarme terrorista ha scientemente violato l’autorità e la sovranità di altri Paesi del Medio Oriente; uno stato impunito per cui non vige normativa internazionale in caso di bombardamenti unilaterali in Siria, Egitto e Libano, massacri a Gaza e Cisgiordania. La fattispecie di Israele è divenuta tale che la sorte di ogni Paese arabo è legata alla sua arroganza e alle sue esigenze politiche. L’intero Medio Oriente ne è ostaggio, in barba a ricostruzioni vittimistiche che ne giustificano la natura colonialista e terroristica.