Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti
Lavorare per vivere o vivere per lavorare. In questo gioco di parole è racchiusa tutta la distanza che separa la società così la vorremmo noi da come invece è organizzata adesso. Un distillato semantico della irriducibile differenza che intercorre tra il socialismo e il modo di produzione capitalistico. Qualche giorno fa un emendamento alla manovra economica di un senatore del PDL aveva paventato un innalzamento repentino (a partire dal gennaio 2016) dell’età pensionabile e la successiva smentita del Ministro Sacconi, anche se scongiura a parole questa possibilità, comunque non cambia la sostanza dello spirito che ha animato tutte le (contro)riforme previdenziali degli ultimi decenni. Chiunque sia stato al governo in questi anni, centrodestra o centrosinistra per chi lavora poco cambia, ha mirato sempre e comunque all’innalzamento dell’età pensionabile adducendo come scusa principale la crescita dell’aspettativa di vita. Quasi che campare qualche anno di più per un lavoratore o una lavoratrice fossero una colpa e non un’opportunità per godersi qualche anno di vita in più liberi dalla schiavitù del lavoro salariato. C’è però un altro aspetto della questione che viene completamente rimosso dal dibattito politico e sindacale. Perchè se è vero che una generazione di proletari sarà costretta a lavorare di più per godere di un diritto sacrosanto, è anche vero che c’è un’intera generazione per cui, stando così le cose,questo diritto resterà lettera morta. Parliamo di chi si affaccia adesso al mondo del lavoro o di chi lo ha fatto da qualche anno o di chi lo farà tra qualche anno. Lavoratori intermittenti, precari, sottoccupati, disoccupati, a nero, a tempo determinato, a progetto… i cosiddetti atipici, che poi tanto atipici non sono visto che si parla di milioni di proletari, e che non soddisferanno mai le condizioni capestro loro imposte. Dal 2018, infatti, chi vorrà andare in pensione dovrà raggiungere quota 97 ed avere almeno 61 anni di età. Ovvero aver versato contributi in maniera continuativa per almeno 36 anni. Trentasei anni di contributi? E chi li vedrà mai? Proprio oggi l’ISTAT ha fatto uscire i dati sulla disoccupazione giovanile che in un solo anno è salita al 29.2%. Un dato che è ben al disotto di quello reale visto che secondo le modalità di rilevazione dell’ISTAT basta aver lavorato solo un’ora nella settimana di riferimento per essere considerati “occupati”. Come farà questo “esercito industriale di riserva” ad accumulare 36 anni di contributi? Di che cosa vivrà quando non potrà più saltellare da un call center a uno stage o da un fast food a una fabbrichetta? Così assistiamo al paradosso che mentre una fetta sempre più consistente di lavoratori rimane inoccupata, un’altra fetta si vede aumentare tempi e ritmi di lavoro e diminuire i salari. Il tutto in un era che grazie alla produttività delle nuove tecnologie potrebbe permetterci di lavorare pochissime ore al giorno per produrre in maniera sostenibile tutto ciò di cui abbiamo bisogno. Come scriveva Brecht: la semplicità che è difficile a farsi.