Lavoro gratuito e «volontario»: verso una forma legalizzata di schiavitù
Con l’improvvisa e disastrosa alluvione di Firenze della scorsa settimana è salita nuovamente agli onori delle cronache una di quelle proposte che dovrebbe far accapponare la pelle, provocando un moto generalizzato di rifiuto: quella di mettere a lavorare gratis – apparentemente come «volontari» – i cosiddetti «profughi» (o, usando una sineddoche, gli «immigrati»). Fautori della proposta – che tra l’altro si è concretizzata nei giorni successivi – sono stati questa volta il governatore della Toscana Enrico Rossi e il sindaco di Firenze Dario Nardella, un renziano di ferro. I due, subito dopo l’alluvione, hanno esaminato varie ipotesi, tra le quali c’era «anche la possibilità di utilizzare i profughi ospitati in Toscana per i primi interventi di pulizia e ripristino, utilizzando anche la convenzione attivata con Inail per l’assicurazione per lavori di pubblica utilità» (leggi). Poche ore dopo, Nardella ha dichiarato che «i profughi ospiti della Regione Toscana, e in particolare quelli che sono a Firenze e nei comuni limitrofi, da domani potranno essere di supporto alla Protezione Civile di Firenze […] e saranno utilizzati in particolare per il ripristino del verde pubblico» (leggi).
Nei giorni successivi, mentre alcuni immigrati si offrivano volontari per aiutare nel ripristino della normalità a Firenze, Rossi in un’intervista si spingeva oltre:
“In cambio dell’accoglienza – dice ancora Rossi – ci deve essere la disponibilità a prestare attività di carattere volontario a vantaggio della comunità”. Qualcuno l’ha già fatto. A Torrita di Siena i profughi accompagnano, sotto l’egida della locale Misericordia, i bambini a scuola e aiutano gli anziani a salire sui pulmini dei servizi sociali. A Monteriggioni lavorano per un associazione creata dal parroco garantendo l’apertura di spazi pubblici. A Prato spazzano e puliscono i giardini. A Firenze hanno offerto il loro aiuto nel dopo-nubifragio dei giorni scorsi. “Ma con le due delibere approvate di recente dalla giunta regionale – conclude Bugli – è ancora più semplice. Abbiamo infatti sciolto gli ultimi problemi burocratici e normativi, a partire dall’assicurazione obbligatoria, che potevano creare un ostacolo”.
L’idea di mettere a lavoro gratuitamente gli immigrati, in realtà, non è nuova, ma anzi costituisce un vecchio cavallo di battaglia di Alfano. Una circolare del ministero dell’Interno della fine del 2014, intitolata Volontariato per l’integrazione dei richiedenti asilo (n. 14290/2014), infatti, ha richiesto agli enti locali, prendendo spunto da una discutibile iniziativa della Caritas di Bergamo, di favorire il lavoro gratuito (volontario?) dei richiedenti asilo dietro il ridicolo pretesto dell’«integrazione»:
Gli importanti flussi migratori che hanno interessato l’Italia a partire dalla fine del 2013, e per tutto il 2014, hanno determinato una significativa presenza di cittadini stranieri extracomunitari ospitati in tutte le province del nostro territorio. A seguito di ciò da più parti è stato evidenziato che una delle criticità connesse all’accoglienza è quella relativa alla “inattività dei migranti” che si riverbera negativamente sul tessuto sociale ospitante. Per ovviare a tale situazione si ritiene che, come già avviato con successo dalla Prefettura dl Bergamo, le SS.LL. potrebbero sottoscrivere protocolli d’Intesa con gli EE.LL., anche costituiti in consorzio, volti a porre in essere percorsi finalizzati a superare la condizione di passività dei migranti ospitati nelle province di rispettiva competenza attraverso l’individuazione di attività di volontariato. Tali iniziative appaiono meritevoli di ogni considerazione in quanto, coinvolgendo i migranti in attività volontarie di pubblica utilità svolte a favore delle popolazioni locali, si assicurano loro maggiori prospettive di integrazione nel tessuto sociale del nostro Paese, scongiurando un clima di contrapposizioni nei loro confronti. Le attività oggetto dei protocolli d’intesa devono essere rivolte, esclusivamente ai richiedenti asilo e a coloro che sono in attesa della definizione del ricorso in caso di impugnativa della decisione negativa della competente Commissione Territoriale e ciò nella considerazione che per i titolari di Protezione internazionale sono previsti altri percorsi di inserimento lavorativo.
Pertanto le attività di volontariato svolte dai richiedenti asilo devono rispondere ai seguenti requisiti:
1) Devono essere svolte esclusivamente su base volontaria e gratuita;
2) Devono essere finalizzate al raggiungimento di uno scopo sociale e non lucrativo;
3) Deve essere sottoscritta un’adeguata copertura assicurativa per la responsabilità civile verso terzi e contro gli infortuni, non a carico di quest’Amministrazione;
4) Deve essere assicurata una formazione adeguata alle attività che saranno svolte dai migranti volontari;
5) Gli stranieri devono aderire, in maniera libera e volontaria, ad un’associazione e/o ad un’organizzazione di volontariato.
Questa circolare ministeriale, in quanto atto amministrativo e non fonte (neanche secondaria) di diritto, non ha alcun valore prescrittivo e, inoltre, la sua applicazione si potrebbe configurare come violazione di una legge effettiva, quella che prevede che qualsiasi lavoro subordinato debba essere retribuito, a meno che non si tratti di volontariato. E, quest’ultimo, è ovviamente un’attività a cui nessuno può essere costretto né per legge (leggi) né per supposti obblighi morali («in cambio dell’accoglienza», dice Rossi: gli si potrebbe rispondere facilmente che l’accoglienza è il minimo, «in cambio del colonialismo e delle guerre imperialiste»…). Essa è stata, quindi, messa in pratica da pochissimi enti locali.
Non soddisfatto dei risultati, a maggio Alfano è ritornato sulla questione, spronando i comuni ad applicare la suddetta circolare che, parole sue, «autorizza il lavoro gratuito degli immigrati» (leggi e leggi). Una richiesta senza alcun senso, perché appunto nessuno può essere costretto al volontariato. Tra l’altro, Alfano soffre evidentemente di un disturbo della personalità: solo poche settimane dopo, infatti, ha affermato – giusto per dare un po’ di soddisfazione alla retorica degli «immigrati che ci rubano il lavoro» – che «immaginare che un immigrato tolga lavoro ad un italiano è impensabile, gli italiani non vedranno rubati posti di lavoro dagli immigrati»: quello che vuole mettere gli immigrati a fare gratis lavori che qualsiasi persona (anche gli stessi immigrati «volontari») potrebbe fare dietro retribuzione, come può lamentarsi della disoccupazione e del supposto «furto» di posti di lavoro?
Il caso toscano – secondo quanto emerge dall’articolo riportato sopra – è emblematico: le attività di «volontariato» in cui sono impegnati gli immigrati sono prevalentemente quei servizi sociali e di pubblica utilità a cui gli enti locali e il governo hanno tagliato fondi e finanziamenti. Per non veder franare completamente il sistema di welfare, quindi, vengono impiegate gratuitamente delle persone per svolgere compiti che dovrebbero essere invece svolti – come avveniva in passato – da personale qualificato e, soprattutto, contrattualizzato. A spalare il fango di un’alluvione dovrebbero essere i vigili del fuoco e la protezione civile. Ad aiutare bambini e anziani dovrebbero essere degli operatori sociali, non dei volontari: a questi ultimi, invece, vengono affidati quei «lavori di cura» a cui lo stato sociale non provvede più. Quello che per anni è stato un compito da attribuire alle donne, ora viene «appaltato» a un’altra categoria priva (o, per meglio dire, privata) di diritti e aspettative, quella dei «volontari», siano essi immigrati o italiani (magari disoccupati…).
È molto significativo che Rossi – ma esperienze simili si sono già registrate anche nelle Marche – elenchi tra le attività volontarie degli immigrati quella di «spazzare e pulire i giardini» a Prato, un’attività che dovrebbe essere svolta dai lavoratori retribuiti delle aziende municipali che si occupano dei servizi ambientali e della gestione dei rifiuti. È significativo perché basta poco per fare un paragone con il caso di Roma: dopo che è emerso come il Servizio giardini del Comune fosse uno degli snodi attraverso cui passavano gli appalti truccati poi affidati alle cooperative di Buzzi e Carminati e alla cricca di Mafia Capitale, il blocco delle sue attività ha comportato una situazione di stallo in cui tale servizio ha praticamente smesso di funzionare. Il risultato sono stati parchi sporchi, erbe alte, rischio di incendi. Una situazione a cui il Comune ha pensato «brillantemente» di far fronte impiegando per tre mesi «14 soggetti condannati, sottoposti a misure alternative al carcere» nei lavori di cura del verde, pulizia e manutenzione di strade, parchi e giardini a Ostia, dopo una convenzione tra l’Uepe (Ufficio locale di esecuzione penale esterna di Roma e Latina) e il X Municipio di Roma (leggi). Non che non sia giusto trovare un’occupazione ai detenuti e puntare così al loro reinserimento – anzi – ma essi non dovrebbero essere visti come manodopera a basso costo con cui tamponare i buchi di enti locali che non investono più sui servizi pubblici. Immigrati, condannati, carcerati – in pratica i soggetti più ricattabili della società – non possono costituire il bacino di «disperati» a cui rivolgersi per supplire alle mancanze dello stato sociale.
La questione è, ovviamente, molto delicata: non si può pensare, infatti, che gli immigrati siano soggetti passivi di tutte le decisioni che vengono prese su di loro e che si adattino supinamente a prestarsi come «volontari». In questo senso, va tenuto in considerazione il legittimo desiderio di rendersi utili – o anche semplicemente di sfuggire all’inattività e all’abbrutimento a cui essa potrebbe condurre – anche con attività volontarie, soprattutto in occasione di catastrofi naturali come quelle di Firenze, che smuovono certamente le commozione e spronano all’azione. Del resto, anche alcuni immigrati volontari, ad esempio in provincia di Pisa, dopo cinque mesi (!!) di volontariato come pulitori di giardini, hanno cominciato a chiedere una retribuzione (leggi): va bene il desiderio di rendersi utili, ma alla lunga emerge chiaramente la catena di sfruttamento dietro la pretesa degli enti locali di far lavorare gratis le persone.
Il fatto che questo lavoro «volontario» sia non solo previsto ma anche richiesto a gran voce dal governo, tuttavia, va tematizzato e contestualizzato nella complessiva ristrutturazione dei rapporti di lavoro che sta prendendo corpo tanto in Italia quanto, come è ovvio, in tutta l’Ue.
Innanzitutto, è necessario chiarire a quali «immigrati» ci si riferisca facendo questo appello al lavoro volontario che dovrebbe superare – l’espressione è contenuta nella circolare di Alfano – «l’inattività dei migranti». Non certo agli oltre 5 milioni di immigrati regolari in Italia, che in quanto tali devono avere un contratto di lavoro e quindi sono tutto tranne che «inattivi». Ovviamente, neanche agli immigrati clandestini (difficilmente quantificabili, ma si stima che siano circa 300mila) che, oltre a non essere di certo inattivi, non sono censiti e non hanno alcuna possibilità di rendersi «visibili» in attività di supposto volontariato che gli costerebbero il rimpatrio. Quelli a cui si fa appello per il lavoro gratuito – come recita anche il titolo della circolare ministeriale – sono quindi i richiedenti asilo.
Veniamo ai numeri: nel 2014 sono state presentate 63.456 domande di protezione internazionale (al giugno scorso, ne risultavano esaminate 36.270 e circa 24.000 erano state respinte), a cui se ne aggiungono altre 22.118 fino al giugno 2015 (respinte 7.437 delle 15.780 esaminate). Un totale, quindi, di circa 34mila persone: sono questi che – esclusi, speriamo, i bambini o gli anziani – dovrebbero dare la loro disponibilità per il lavoro gratuito. Una quantità di persone – sul numero totale di immigrati – a dir poco irrisoria: tuttavia utile tanto per fare propaganda politica sugli immigrati che se ne starebbero tutto il giorno senza far nulla a spese «nostre», quanto per testare le tattiche di ricatto più efficaci per garantirsi un esercito di «lavoratori volontari» a cui non assegnare alcuna retribuzione.
Ma perché parlare di ricatto? E perché i richiedenti asilo sono così «inattivi»? C’è un’epidemia di pigrizia tra di loro? Ovviamente la risposta è no. I richiedenti asilo sono inattivi perché le leggi in vigore li costringono a esserlo. Infatti, al momento della domanda di protezione internazionale, ai richiedenti asilo viene concesso un permesso di soggiorno temporaneo, non valido per lavoro: esso dura tre mesi, entro i quali le autorità dovrebbero pronunciarsi sulla loro richiesta. In questi tre mesi, i richiedenti asilo non possono lavorare perché non hanno la documentazione per farlo: o, almeno, per farlo in modo legale. Inoltre, come evidente dai dati sopra sulle domande del 2014 e del 2015 già esaminate, i tempi della risposta si allungano per mesi e per anni, spingendo persone «non clandestine» e dotate di un permesso di soggiorno (anche se temporaneo) nel circuito dell’illegalità del «lavoro nero»: del resto, non si capisce come potrebbero mantenersi per mesi senza poter lavorare.
Inoltre, la richiesta di asilo deve essere giudicata da una Commissione territoriale composta da quattro membri: un rappresentante della prefettura, un funzionario di polizia, un rappresentante di un ente territoriale (comune, provincia, regione) e un rappresentante dell’Unhcr (Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati). Tra i membri di questa commissione giudicatrice figura, quindi, un rappresentante degli stessi enti locali per i quali i richiedenti asilo dovrebbero prestare lavoro volontario e gratuito.
La situazione è grottesca: ai richiedenti asilo viene impedito di lavorare (perché non gli viene fornita la documentazione che li legittima a farlo) e, mentre sono inattivi in attesa di una risposta dalla commissione giudicatrice, gli viene chiesto di lavorare «volontariamente» e «gratuitamente» per quegli stessi enti locali un cui esponente è membro proprio di tale commissione. Non sappiamo definirlo in altro modo che come ricatto: anche considerando il desiderio che potrebbe avere un immigrato di aiutare la comunità in cui vive, infatti, ci chiediamo quanto ci possa essere di «volontario» dove sussiste un rapporto di potere così ineguale e asimmetrico. Difficile, infatti, pensare che gli immigranti non si sentano anche in dovere fare bella figura agli occhi di chi deve decidere del loro futuro.
Se poi i richiedenti asilo non possono lavorare dietro retribuzione, perché invece possono farlo gratis? E con quali tutele sindacali e contrattuali lo farebbero? Chi decide il loro orario di impiego e i giorni di riposo, chi gestisce la catena di comando che li coordina? Quanto a lungo dovrebbe durare questa attività di volontariato? Quali sono i doveri di questi «volontari» e quali i loro diritti? Quali sono le visite mediche a cui vengono sottoposti prima di iniziare lavori di fatica quali pulire giardini o sgomberare le strade dalle macerie di un’alluvione? Qual è la loro preparazione e quali le loro competenze per compierli? Quali corsi di sicurezza sul lavoro hanno seguito prima di mettersi all’opera in attività comunque pericolose («da domani collaboreranno con la protezione civile», ha detto Nardella: basta un giorno per essere preparati?) e chi vigila sul rispetto delle procedure di prevenzione degli infortuni? Non penseremo mica in un’ottica neocoloniale – per non dire schiavista – che chi proviene da paesi più poveri sia «naturalmente» idoneo ai lavori di fatica e li possa fare senza alcuna istruzione e formazione? Il caso dell’alluvione di Firenze, tra l’altro, mostra tutte le contraddizioni di questa richiesta di lavoro volontario: come riportato in un comunicato dei compagni del Cpa, infatti, molti di coloro che si sono subito messi a disposizione per poter contribuire attivamente alla pulizia del quartiere «sono stati ripresi e fermati perché non erano autorizzati a farlo». Evidentemente, gli italiani sono considerati un po’ meno «volontari» degli immigrati.
La messa al lavoro volontario dei richiedenti asilo – costretti a un’inattività forzata e allungata dei tempi biblici di svolgimento delle pratiche – costituisce la nuova frontiera dello sfruttamento degli immigrati, dopo che le politiche securitarie e repressive hanno costretto i lavoratori stranieri ad accettare ogni tipo di condizione lavorativa, diminuendo così nel lungo periodo le tutele per tutti. Infatti, il lavoro volontario/gratuito apre le porte a una diminuzione dei diritti lavorativi di tutti, abbassa il costo del lavoro, legittima gli enti pubblici a non investire nella creazione e nel mantenimento di posti di lavoro: dove ci sono persone che fanno gratis un lavoro per il quale potrebbero essere retribuite, infatti, la destrutturazione dei rapporti lavorativi in atto da anni segna un punto a suo favore.
Il dibattito politico degli ultimi mesi in più occasioni ha riguardato proprio questi temi. Da Jovanotti a Luca Sofri, infatti, si sono sentiti diversi appelli sul «gratis è bello»: sarebbe bello perché fa fare «esperienza», perché è «divertente» o perché fa provare «delle soddisfazioni più varie che non sono necessariamente monetizzate». Così dicono quelli che non si devono preoccupare la mattina di come arrivare alla fine del mese…
Si tratta, a ben vedere, di un ricatto non diverso da quello a cui sono sottoposti i richiedenti asilo: in un momento di altissima disoccupazione, soprattutto giovanile (che supera il 40%), cosa c’è di meglio di offrire, al posto di una retribuzione, l’aspettativa di un miglioramento della propria condizione differita nel tempo e proiettata nel futuro? Se lavori gratis – si dice – fai esperienza: un’esperienza che ti potrai vendere sul curriculum per ottenere, poi, un lavoro migliore (oppure, «se lavori gratis la commissione territoriale vedrà che ti interessi alla comunità e, poi, ti concederà la protezione internazionale»). Mica vorrai rimanere a casa «senza fare niente», mica vorrai essere un «neet», no? In realtà, lavorare gratuitamente indebolisce proprio la propria posizione nel mercato del lavoro: un datore di lavoro, vedendo in un curriculum che la persona che ha di fronte non ha problemi a lavorare gratis, non si farà problemi a pensare che posa farlo di nuovo o che sia disponibile a lavorare sottopagata (poco è sempre meglio di niente, no?) e in condizione di sfruttamento.
In una realtà in cui gli stage gratuiti sono per i giovani quasi la condizione di normalità, la retorica – o per meglio dire, l’ideologia – del «gratis è bello» ha poi avuto due grandi consacrazioni: una legislativa, prima con il programma Garanzia Giovani e poi con il Jobs Act, e una pratica, con la sua istituzionalizzazione a Expo 2015. Per quanto riguarda Expo, il 23 luglio 2013 Cgil, Cisl e Uil, il Comune di Milano ed Expo 2015 spa hanno firmato un accordo per favorire l’assunzione a termine di 800 lavoratori e l’utilizzo di 18.500 volontari (18.500!!) per l’esposizione, da impiegarsi su turni di cinque ore al giorno, per un massimo di due settimane ciascuno in attività di accoglienza ai visitatori (leggi): si è trattato del primo accordo sindacale che permette il ricorso al lavoro non pagato. A un’azienda (per quanto di proprietà pubblica), la Expo spa, è stato così garantito di fare profitto senza preoccupazioni per il costo del lavoro, ridotto a zero: il sogno di ogni capitalista.
In una situazione come questa, è del tutto da rifiutare l’accondiscendenza con la quale vengono accolte proposte come quelle del duo Rossi-Nardella e le conseguenti disponibilità come volontari date dai migranti. Se una visione buonista dell’immigrazione potrebbe portare ad affermare, nel nome di un generico antirazzismo, «avete visto, razzisti? Non è vero che gli immigrati stanno lì senza fare nulla a spese nostre, ma si danno da fare! Ci aiutano!», la diffusione di questa retorica avrebbe effetti deleteri. L’unico modo per superare l’ottica razzista – equamente distribuita tra quelli per i quali gli immigrati ci rubano lavoro e quelli per i quali essi non fanno niente perché sono mantenuti dagli italiani – è la lotta per l’estensione dei diritti sul mondo del lavoro e contro le leggi repressive che legittimano la ricattabilità degli immigrati. Salari e orari uguali per tutti, stessi diritti sindacali, garanzie contrattuali, sicurezza sul lavoro, rifiuto del lavoro gratuito: è questa la strada per un miglioramento della vita di tutti i lavoratori. Ricordandoci che il lavoro gratuito non si chiama volontariato: si chiama schiavitù.