Le guerre “umanitarie” ai tempi della crisi globale
In attesa dei file audio, riportiamo il nostro intervento fatto all’iniziativa
LE TECNICHE DI MANIPOLAZIONE MEDIATICA DELL’IMPERIALISMO
1.Il giornalismo oggi
L’imperialismo costruisce barriere immaginarie tra la popolazione, affinché questa ignori l’opposizione capitale/lavoro e le vere differenze di classe passino sotto silenzio. Si tratta di costruzioni simboliche che producono, però, effetti reali, dal momento che creano discriminazioni, erigono barriere, permettono lo sfruttamento di larghe fasce della popolazione e l’arricchimento di un’élite. Una precisa corresponsabilità è attribuibile a coloro che svolgono il ruolo di definire le rappresentazioni del sistema di potere e delle relazioni sociali all’interno di un determinato contesto: i giornalisti. Non a tutti ovviamente, ma a coloro che sono coscientemente passati dall’informazione alla disinformazione, dall’approfondimento alla mistificazione. Ovviamente ci sono stati tantissimi compagni/e che hanno adempiuto egregiamente il loro ruolo di giornalisti, pagandone anche le conseguenze,[1] ma molti di più risultano essere coloro asserviti alla classe dominante. Prendiamo il caso degli Stati Uniti, il Paese nel quale i giornalisti hanno raggiunto le vette più alte dell’inchiesta (con il caso Watergate), ma hanno anche inventato il termine “embedded”, a indicare la predisposizione a basare i propri articoli unicamente sulla volontà dei poteri forti. D’altronde, è un motto del giornalismo Usa “la verità non deve rovinare una bella storia”. Motto che racchiude perfettamente la filosofia che ispira un’intera professione. C’è anche il corrispondente motto europeo, attribuito a Longanesi (da qualcuno invece a Missiroli): “fare il giornalista è sempre meglio che lavorare”.
Il cittadino medio è sovente sommerso da un effluvio di notizie che mettono a dura prova la sua coscienza critica. Persino l’operatore della comunicazione di massa risulta limitato nella sua attività, in una maniera che tutte le narrazioni della figura del giornalista tentano di celare: oggi i complessi sistemi mediatici vivono e si moltiplicano attraversano la spirale della concentrazione, dal momento che i media sono in mano a pochi grandi gruppi. Lo stesso dicasi per la telefonia, il cinema, la televisione, la pubblicità, l’informatica e i cablaggi. Ne consegue che una ristretta élite controlla le notizie da diffondere a livello globale, forte di una superiorità che non è solamente economica, quanto – si badi bene – tecnica. A causa della costante velocizzazione dei flussi di comunicazione e dell’aumento vertiginoso dei dati da trasmettere, le notizie sono distribuite da quelle poche agenzie in grado organizzativamente e tecnologicamente di fronteggiare un’informazione prodotta “in tempo reale” e capace di coprire tutto il globo, senza lasciare (almeno in apparenza) buchi neri e black-out informativi. In questo meccanismo il ruolo del giornalista perde centralità e protagonismo: come un operaio alla catena di montaggio (tipo Chaplin in Tempi moderni), il giornalista subisce una taylorizzazione della sua professione e diventa una semplice pedina che trasporta informazione dal produttore al consumatore.
La sfera politica ha ovviamente buon gioco nell’intervenire all’interno della costruzione verticistica ed elitaria delle notizie a livello globale: consapevole del grande potere che hanno ormai i media nell’indirizzare l’opinione pubblica e nell’orientare le pratiche sociale (fino alla definizione del voto elettorale e alla creazione dei valori socio-culturale di un individuo), la politica condiziona direttamente o indirettamente il sistema dei media, con il semplice possesso o con l’imposizione di temi di discussione e di frame interpretativi. È quello che si chiama news management e che consiste nel fornire ai media una grande quantità di notizie e di immagini che impongano un certo punto di vista, inibiscano una originale e autonoma attività di ricerca e facciano scattare nel professionista della comunicazione il meccanismo psicologico dell’autocensura. Tale meccanismo acquista una geometrica perfezione quando nel teatro della notizie vige uno stato di eccezione, come nel caso delle guerre. Il giornalista in guerra (ma anche il giornalista che non si trova al fronte, mentre il suo Paese combatte) è sotto la perenne spada di Damocle dell’accusa di “disfattismo”, nel momento in cui la sua attività contrasta con gli interessi nazionali. Allo stesso tempo, anche al di fuori degli scenari di guerra, l’informazione fa valere la “pregiudiziale nazionale”: nei confronti di individui con passaporto non-italiano vale sempre la logica del “sono i nostri ragazzi”, come nel caso dei marò in India. “Riportiamoli a casa!”, senza porsi alcune domande elementari, tra cui – fondamentale – “che cavolo ci facevano reparti speciali della marina su una nave mercantile?”.
Con questo vogliamo dire che nel sistema capitalistico l’informazione è solo parzialmente libera, perché i media sono imprese dotate di precisi obiettivi commerciali, i quali hanno il loro peso sulla politica informativa. Le acquisizioni e gli accorpamenti nel mercato dei media parlano di banche che finanziano i mezzi di comunicazione, di imprese che ne sono le dirette proprietarie o ne possiedono importanti pacchetti di azioni, di imprenditori che sostengono in vario modo l’industria dell’informazione. Oggi che l’incidenza della quota pubblicitaria sui bilanci della carta stampata e delle emittenti radio-televisive ha una importanza notevole, indirizzare i flussi pubblicitari in un verso o in un altro significa, per un imprenditore o una multinazionale, “punire” di fatto le voci avverse e “premiare” quelle favorevoli.
Oltre ai flussi economici, anche il pensiero politico-ideologico dei giornalisti, dei redattori e dei direttori di testata costituisce un ulteriore filtro rispetto al sistema dell’informazione: i loro pregiudizi, un certo corporativismo, l’eccessiva specializzazione, la loro fedeltà all’azienda e una inequivocabile tendenza all’autocensura rappresentano oggettivi impacci verso una corretta informazione, ma non sono sufficienti comunque a eliminare tutte le notizie critiche verso il pensiero dominante. Queste ultime, infatti, riescono talvolta ad aprirsi anguste vie di diffusione: si tratta – a ben vedere – di “spiragli controllati”, utili a far credere che la fonte di informazione sia pluralista, credibile, indipendente. La cosiddetta “voce libera”, inoltre, viene spesso confinata sotto forma di opinione (un Editoriale, un Commento di un tecnico, quando anche una Lettera al direttore), non tanto per darle un’aura di superiorità rispetto alla normale gestione della notizia, quanto per ribadire presso il lettore che si tratta di un’affermazione soggettiva (per quanto referenziata e importante), invero scollegata rispetto al fatto in sé, che si presume essere stato rappresentato in maniera oggettiva.
2.La strutturazione delle news
Le tecniche di disinformazione agiscono spesso in maniera ancora più machiavellica di quanto descritto prima. Un esempio è dato da quella che potremmo definire “manipolazione geometrica” all’interno del quotidiano, ottenuta inserendo la notizia in una sezione diversa da quella che sarebbe logico attendersi. Come è facile immaginare, il luogo e lo spazio dati a una notizia influenzano con decisione la percezione del lettore, dal momento che possono relativizzarne l’importanza, rendendola più o meno interessante. Lo strumento-quotidiano altro non è che una ragionata gerarchia di notizie: quelle più importanti meritano i maggiori spazi e le prime pagine (cioè quelle maggiormente lette), spesso di numero dispari, in quanto considerate più visibili per un lettore medio che sfogli il giornale velocemente. Utilizzando parametri ottici, risulterebbe che la notizia maggiormente visibile sia quella pubblicata nelle prime pagine dispari (la prima, la terza, al limite la quinta), nella parte alta e sulla destra. È bene precisare che i meccanismi di manipolazione mediatica, proprio perché influenzati dal capitalismo globale, sono rintracciabili anche al di fuori dell’Italia. Facciamo qualche esempio: il quotidiano spagnolo “El Mundo” nell’edizione del 27 maggio 1999 dedicò addirittura la prima, la seconda e la terza pagina al processo che il Tribunale dell’Aja aveva iniziato contro l’ex presidente jugoslavo Milosevic. La notizia della denuncia che la Jugoslavia aveva intentato contro la Nato, invece, venne occultata dallo stesso giornale fino al 3 giugno 1999, quando meritò una mezza colonna in una pagina interna (pari).
Altre volte la mistificazione non si applica con la diminuzione delle colonne, ma con una sorta di “delocalizzazione”: la notizia viene riportata in un’altra sede, rispetto a quella di competenza, con il preciso obiettivo di depotenziarne l’attenzione e la capacità di incisione. Le notizie di scioperi, quindi, vengono derubricate nella sezione “Economia” – che solitamente viene letta da una minoranza di lettori (perché ritenuta specialistica) – oppure nelle pagine locali, come se fossero unicamente questioni di ordine pubblico.
Una maniera più sofisticata di mistificazione risponde al detto latino “promoveatur ut amoveatur”: in questo caso l’issue contestataria passa dal piano nazionale a quello internazionale. Non si tratta – si badi bene – di una rimodulazione per accrescerne la portata, quanto al contrario per diminuirla, alla luce del fatto che il lettore medio continua a essere più interessato alla cronaca nazionale rispetto a quanto accade a livello internazionale. Chiari esempi di una manovra del genere sono forniti dalle rappresentazioni dei molteplici vertici internazionali (organizzati dai Paesi più industrializzati, dalle alleanze militari, dalle Nazioni Unite e dalle sue agenzie, dai coordinamenti regionali…) confinate nella sezione “Esteri” anche quando le decisioni prese hanno precise ricadute nazionali.
Un altro strumento utile alla rappresentazione tendenziosa degli avvenimenti è costituito dal “gioco di sponda” tra titolo e contenuto di un articolo. La logica vorrebbe che il primo sintetizzi in maniera interessante, per un ipotetico lettore, quanto è stato scritto dal giornalista nel secondo. Non di rado, però, colui che sceglie il titolo (solitamente persona diversa da chi ha scritto l’articolo) preferisce rimarcare un aspetto particolare presente nel corpo dell’articolo, rischiando però di manipolare il senso di quest’ultimo. Si prenda il caso di due articoli che trattano il caso del conflitto arabo-israeliano in forma di intervista a esponenti di entrambi gli schieramenti. Nel primo caso (Repubblica, 14 aprile 2003, ma il copyright era di Haaretz) Ari Shavit intervistava il premier israeliano Sharon: il titolo (rilanciato anche in prima pagina) riprendeva una frase del premier (“Lasceremo le colonie per la pace con i palestinesi”), ma il lungo e articolato colloquio era molto meno possibilista nei confronti di ipotesi di pace. Sharon, infatti, citava i Paesi che – dopo l’attacco Usa all’Iraq di Saddam – rappresentavano ulteriori problemi per Israele (Iran, Libia, Arabia Saudita); parlava delle colonie costruite abusivamente come “la culla del popolo ebraico”; subordinava la discussione sull’eventuale ritiro israeliano a un cambio di leadership palestinese e all’avvio di non specificate riforme; negava infine la possibilità del ritorno dei profughi palestinesi in Israele (come chiesto persino dall’allora presidente Usa Bush).
Similmente, un’intervista di Francesco Battistini (Corriere della Sera, 16 giugno 2010) al co-fondatore di Hamas, Mahmoud al Zahar, spaziava su una varietà di argomenti: l’assedio che i palestinesi subiscono a Gaza, la (presunta) illegittimità del governo palestinese di Abu Mazen, il ruolo del leader turco Erdogan, il fallito accordo per liberare il soldato israeliano Gilad Shalit (poi effettivamente liberato). Eppure il titolo dell’intervista (“L’Iran non è il diavolo. Aiutare noi fratelli è un dovere islamico”) si concentrava solo su un aspetto, trattato peraltro esclusivamente nella prima risposta di al Zahar.
In definitiva, Corriere della Sera e Repubblica non hanno mutato, nel corso degli anni, la loro lettura del conflitto arabo-israeliano in senso filo-occidentale e hanno cercato, nelle interviste con gli esponenti delle due parti, di diffondere presso l’opinione pubblica l’immagine di una netta suddivisione tra disponibili “colombe” (gli israeliani) e bellicosi “falchi” (i palestinesi).
3.La semantica della disinformazione
La costruzione di una cosciente disinformazione, in definitiva, attiene più al piano semantico che a quello “geografico”. Un esempio classico e ormai universalmente diffuso è costituito dalla creazione delle cosiddette “parole magiche”, cioè dall’uso – in voga presso i giornalisti – di termini che presentano una indubbia connotazione positiva per descrivere situazioni e contesti che meriterebbero, invece, ben altro spirito critico. Si può notare, di conseguenza, come gli articoli di giornale siano oggi infarciti di parole come sviluppo, crescita, tecnologia, competitività, occupazione, flessibilità. Spesso mutuati integralmente dai comunicati stampa dei politici e dei governi, gli articoli si adornano di una melliflua marmellata volta unicamente a rassicurare il lettore sfruttando il potere magico della parola. Piani di tagli industriali, ridimensionamenti dei posti di lavoro, riduzione del welfare, aumento della produzione militare, maggiore onerosità per i servizi pubblici: decisioni potenzialmente impopolari vengono edulcorate mediante l’uso di parole adatte, spesso in una combinazione che azzera la capacità di riflessione.
Quando si tratta, ad esempio, di giustificare gli ingenti impegni militari, la produzione di armi viene esaltata come una caratteristica dell’ingegno nazionale. Di conseguenza, apprendiamo estasiati della capacità di produrre “l’obice più avanzato del mondo”, “l’elicottero militare più veloce”, “il razzo dalla gittata più lunga”. Mentre gli articoli sono pieni di tecnicismi e di esaltazioni per le prestazioni tecniche all’avanguardia, nulla viene detto a proposito della capacità distruttiva dell’arma di turno o del budget necessario per produrla. Come se si trattasse di un innocente modello di automobile sportiva.
Il capitolo del lessico giornalistico in tempo di guerra meriterebbe ben altro spazio. In questa sede ci limitiamo a sottolineare come sui quotidiani l’argomento sia trattato con estrema delicatezza e abbondante uso di eufemismi o tecnicismi, a seconda della necessità. Gli armamenti diventano così “prodotti di alta tecnologia”, i civili che muoiono in guerra rappresentano disdicevoli “danni collaterali”, l’offensiva militare diventa un più neutro “intervento aereo (o terrestre)”.
All’estremo opposto del sofismo linguistico, la criminalizzazione di soggetti politici o sociali passa attraverso l’uso di termini aggressivi, spesso senza indagarne l’effettiva opportunità. È il caso dei movimenti sociali o dei collettivi politici ai margini dell’arco costituzionale, dei soggetti impegnati nelle lotte sociali o di quelli percepiti come una minaccia per l’ordinamento. In questi casi si assiste a un effluvio di aggettivi come radicale, estremista, fanatico, irriducibile, ultrà, fino all’ormai sdoganato terrorista. Un meccanismo consolidato prevede l’associare automaticamente certi collettivi o aggregati di soggetti ad alcuni fatti. Un esempio da manuale è rappresentato dal caso dei fatti delittuosi che hanno gli immigrati come protagonisti: è diventata prassi normale mettere in risalto – spesso iniziando già dai titoli – la nazionalità e la condizione (se clandestino o regolare) dell’immigrato. Normalmente gli articoli non riescono a stabilire una relazione automatica ed esplicita tra l’essere immigrato e il delinquere, ma l’associazione viene definita per ripetizione e insistenza, fomentando l’allarme sociale, il sentimento xenofobo e la pratica razzista.
Oltre agli automatismi linguistici, meritano risalto anche le “espressioni orientate” che il linguaggio giornalistico usa ormai di default per descrivere determinate situazioni: dietro la frase più innocente spesso si nasconde una precisa scelta politica. Nel caso di manifestazioni di protesta e moti di piazza i quotidiani “mainstream” compiono la loro scelta e usano espressioni rituali: “le forze dell’ordine si sono viste obbligate a caricare i manifestanti”, “un gruppo di dimostranti ha provocato la polizia”, “le forze dell’ordine hanno eseguito una carica di alleggerimento”. In questo modo la responsabilità della violenza di piazza ricade apoditticamente su coloro che l’hanno subita! Un altro strumento per denigrare i manifestanti è costituito dall’abitudine, propria dei media ufficiali, di dividere questi ultimi in “pacifisti” e “violenti”, dove gli uni sommerebbero in sé i vivai giovanili dei partiti, l’associazionismo cattolico e le strutture della cooperazione decentrata, mentre gli altri sarebbero focalizzati nei Centri Sociali Occupati Autogestiti e nelle fila dell’anarchismo. A ben vedere, è una dicotomia piuttosto duttile, dato che risulta applicabile anche ad alcuni movimenti indipendentisti (i baschi, i nord-irlandesi, i kurdi, gli zapatisti) e presenta l’obiettivo ultimo di dividere il fronte degli attivisti in buoni e cattivi.
Anche il caso siriano, che oggi prendiamo in esame all’interno di questa iniziativa, è indicativo delle tecniche di manipolazione mediatica. A livello dei due più diffusi quotidiani italiani notiamo alcune differenze, proprie soprattutto del campo semantico, ma non certo del posizionamento rispetto alla questione della guerra: tutti sono d’accordo nell’intervenire. La Repubblica replica l’approccio vincente tenuto contro la Libia: si deve intervenire per interrompere la violazione di quei diritti civili che, peraltro, proprio i cosiddetti “ribelli” (aiutati dalle truppe imperialiste) contribuiscono a insultare. Per questo motivo il quotidiano di Ezio Mauro schiera un’intera formazione di intellettuali che chiedono la fine del regime di Assad: nel solo mese di febbraio ricordiamo la yemenita, già premio Nobel, Karman, l’imperdibile Adriano Sofri, Tahar Ben Jelloun, lo scrittore americano Jonathan Littell, Moises Naim, l’affidabile Unicef.
Ovviamente le tecniche di disinformazione devono gestire non solo il presente, ma anche il recente passato, per rendere credibile il prossimo futuro: persino agli occhi di Repubblica è evidente come la situazione in Libia, attualmente, sia ben lontana da quella condizione di pace e democrazia utilizzata per giustificare l’esplicito appoggio ai ribelli. L’8 febbraio Repubblica pubblica parte della prefazione di Lucio Caracciolo al libro Libia. Fine o rinascita di una nazione?, curato da Mezram e Varvelli. Caracciolo si chiede perché siamo ancora in attesa che “i principi delle rivoluzioni americana e francese” attecchiscano in Libia. La sua risposta è la seguente: la “primavera araba” è stata seguita da una controrivoluzione geopolitica regionale, pilotata dall’Arabia Saudita e dagli altri Paesi del Golfo, per evitare che il “germe rivoluzionario” arrivasse fin lì e che la “primavera”, da araba diventasse araba saudita. In sostanza, la rivoluzione era giusta, è stato l’intervento dei “cattivi” sauditi a bloccarla. In un certo senso, la stessa posizione che abbiamo notato nella sinistra trotzkista italiana.
Diversol’approccio del Corriere della Sera, che solletica i suoi lettori puntando sul carattere “progressista” dei ribelli: è indicativo il titolo presente nella sezione “Esteri” dello scorso 10 febbraio: “Brigate internazionali in azione in Siria a fianco degli insorti”. Un lettore distratto legge e perbacco…”perbacco, in Siria è tornato l’internazionalismo socialista”, lo stesso che portò Cuba, per esempio, a combattere in Angola, Bolivia e dovunque altro fosse necessario e che ispirò il finanziamento sovietico dei movimenti di lotta contro il colonialismo. Leggendo l’articolo, invece, si evince che queste presunte brigate internazionali sono formate da mercenari libici, coordinati da Abdelhakim Belhaj, che vanta addirittura al Qaeda nel proprio passato. Il vice di Belhaj, tale Al Harati, è stato individuato negli ultimi mesi mentre si impegnava in strani giri tra Dublino, Cipro e Turchia. In una delle tappe egli stesso lamenta il furto di una grossa cifra, che gli sarebbe stata consegnata “da un agente della Cia”.
4.La “produzione visiva” del giornalismo fotografico e televisivo
Un ausilio importante nella fruizione delle notizie è costituito dalle fotografie e dai video che accompagnano l’articolo di turno e che non di rado costituiscono esse stesse un messaggio aggiunto. È intuibile che la loro strategicità valga non solo nell’ambito dell’informazione, ma anche della disinformazione: l’opera di mistificazione realizzata con la penna di un reporter risulta anzi più efficace, se viene compiuta con la macchina fotografica di un fotoreporter o con la telecamera di un video-operatore. La “democrazia visuale” che caratterizza i nostri tempi, quelli che Sartori ha definito propri dell’homo videns, si nutre di immagini e di suggestioni visive, alle quale spesso appalta insieme capacità di analisi e necessità di sintesi.
Prendiamo il caso dell’immagine simbolo della rivolta di piazza Tienanmen (5 giugno 1989): la foto (e il parallelo video) con il giovane cinese che sbarra il passo a una colonna di carri armati. Un gesto estremo e nobile, letto come la rivincita dell’uomo contro il sistema socialista, la gioventù contro i muscoli del regime. La foto fu scattata da tre diversi fotografi da un ufficio prospiciente la strada che sbocca su piazza Tienanmen: i loro scatti furono praticamente identici, tanto che le foto sinottiche aiutarono l’opinione pubblica a radicarsi un’idea stabile e acritica di quanto fosse accaduto. In quell’ufficio su piazza Tienanmen era presente, però, anche un video operatore della rete televisiva inglese Itn che girò un video della durata di qualche minuto. Si vedeva il cittadino cinese frapporsi mentre la colonna di tank incalzava, poi arrampicarsi sul carro armato di testa, cercando una via di penetrazione. A quel punto il veicolo aveva la via libera e, volendo, avrebbe potuto avanzare, ma non lo fece. Si aprì lo sportellino della torretta, ne emerse un soldato, ma il cittadino cinese – che sembrava aver rinunciato alla sua azione dimostrativa e stava tornando indietro – gli dava le spalle e non si accorse della sua presenza. Tutta la scena era venata di un tocco di comicità involontaria. Lo stesso soldato, per giunta armato, avrebbe potuto intimare al dimostrante di andarsene, ma non lo fece. L’uomo, infatti, ridiscese sull’asfalto, fin quando un gruppo di civili lo convinse ad allontanarsi.
In tutto ciò, la rete televisiva Itn montò e trasmise soltanto i secondi iniziali di questo piano-sequenza, riducendolo a un’immagine televisiva praticamente identica al fotogramma di cui i tre fotografi erano co-autori. La parte del filmato che avrebbe aggiunto informazioni importanti ai fini dell’interpretazione di una scena che sarebbe diventata una delle immagini simbolo del mondo post-1989 fu invece scartata. Evidentemente il suo contenuto era ritenuto dagli operatori dell’informazione inadatto al consumo di un grande pubblico, poiché inseriva scorie che minavano la limpidezza del messaggio. I produttori dell’informazione avevano deciso che quell’immagine doveva produrre nel telespettatore l’idea di una contrapposizione netta tra l’inerme e coraggioso cittadino cinese e i brutali soldati dell’esercito. Il primo era buono, i secondi erano cattivi. La contrapposizione doveva essere duale, senza fraintendimenti o vischiosità: l’idea che il cittadino cinese fosse protagonista di una scena semi-comica, anziché eroica, avrebbe inquinato quel progetto politico e culturale. Nella stessa misura in cui si sarebbe saputo che il soldato cinese non era il crudele repressore che si voleva far credere. Almeno non quel soldato cinese e non in quel frangente. Una rivelazione del genere avrebbe generato il germe del dubbio e avrebbe scompaginato il quadro presentato solitamente all’opinione pubblica: “da una parte le baionette, i fucili, i carri armati, gli avvoltoi, i terroristi, gli islamisti; dall’altra i torsi nudi, i fiori, gli sguardi imploranti, le popolazioni inermi, le vittime sconvolte, la distribuzione di cibo e di medicinali” (Roskis, 2004, p.36). Con un’eccezione costante, nel caso in cui i soldati appartengano a contingenti occidentali impegnati in presunte operazioni umanitarie. In questi casi i militari non uccidono più: curano le vittime.
In senso opposto, le illustrazioni riferite al mondo islamico e ai Paesi arabi sono uniformemente associabili alle idee di violenza e di fanatismo, dal momento che ritraggono spesso folle urlanti, funerali di miliziani celebrati con spari di kalashnikov, donne che indossano il burqa. I conflitti degli ultimi anni, in definitiva, si sono combattuti anche sulla carta stampata e nei servizi dei telegiornali: i soldati dei contingenti occidentali erano rappresentati sempre in commossi addii alle famigli o circondati da bambini festanti. Le forze armate della parte avversa avevano sempre, di contro, un aspetto poco rassicurante, feroce, ai limiti dell’inciviltà. Tali immagini stereotipate a volte necessitano di “forzature della realtà” che sarebbero lesive di qualsiasi deontologia giornalistica. Nella primavera del 1999, ad esempio, la stampa spagnola diffuse le foto di un gruppo di zapatisti intenti a consegnare le armi ai rappresentanti del governo messicano, in segno di resa (si veda El País, 31 marzo, 1999, a fianco del titolo “14 ribelli zapatisti disertano l’Ezln”). Pochi giorni dopo si scoprì che l’immagine altro non era che una grossolana messinscena costruita dal governo messicano. Difficile credere, però, che fu fatta senza la connivenza dei media, quantomeno per capire come mai la notizia della sopraggiunta demistificazione sia stata pubblicata con molta mena evidenza (El País, 2 aprile 1999). Pochi mesi dopo sempre El País pubblicò una foto che ritraeva il presidente jugoslavo Milosevic apparentemente intento a fare il saluto fascista (28 maggio 1999). Tempo dopo le proteste di molti lettori costrinsero il quotidiano alla rettifica: si trattava di una foto d’archivio, opportunamente “modificata”. Milosevic, infatti, era originariamente intento a salutare l’arrivo di un aereo, con tutte e due le braccia in alto. Non fu difficile modificare l’immagine, “tagliare” un braccio e fornire un messaggio certamente meno innocuo.
Una mistificazione simile qualche anno prima era stata appannaggio di Saddam Hussein: in occasione della prima Guerra del Golfo i maggiori quotidiani pubblicarono quella che sarebbe diventata una immagine simbolo dell’eco-terrorista Saddam. Si trattava del celebre cormorano morente avviluppato nel petrolio. L’immagine era la prova che Saddam aveva impregnato il mare di petrolio per ostacolare l’avanzata alleata. In seguito – a guerra finita – si venne a scoprire la verità: i versamenti in mare erano dovuti ai bombardamenti statunitensi contro le petroliere irachene e la foto del cormorano risaliva ad anni precedenti, durante un disastro ecologico causato dall’affondamento di una petroliera nel Mare del Nord.
5.La notizia è inquinata sin dalla fonte
Quanto affermato nelle pagine precedenti ruota intorno a un argomento ben preciso, tale da essere un punto-chiave nelle odierne strategie di manipolazione mediatica: le fonti dell’informazione.
Da tempo, ormai, istituzioni, organismi ufficiali, ma anche imprese e “personaggi pubblici” hanno capito l’importanza delle fonti di informazione e preferiscono agire direttamente su di esse per influenzare quanto venga pubblicato o trasmesso dalla stampa. In un certo senso, è un tentativo di “accorciare la filiera della produzione”: il fiume dell’informazione viene deviato direttamente dalla fonte, così che alla foce nessuno sospetterà della deviazione. Per questo motivo uffici stampa e addetti alle pubbliche relazioni formano team di giornalisti, pubblicisti, sociologi, psicologi… con il compito di elaborare strategie e fornire prodotti informativi esaustivi e di alta qualità. L’istituzione o l’impresa di turno, nel caso sia coinvolta in un caso scabroso, avrà già pronto il suo pacchetto di news (lancio di agenzia, approfondimento, dichiarazioni, interviste, reportage) costruito in maniera tale da garantire un “effetto veridittivo”. Offrendo tale prodotto ai giornalisti dei vari media (tenendo conto delle appartenenze politiche) i suddetti team diventano fonti privilegiate di informazione.
Gli esempi non mancano: nel 1991 il ricco governo del Kuwait stipulò un contratto di 10,8 milioni di dollari con una delle più prestigiose agenzie di pubbliche relazioni, la nordamericana Hill & Knowlton, il cui obiettivo consisteva nel convincere l’opinione pubblica statunitense ed europea che fosse giusto intervenire nel Golfo Persico. La stessa Hill & Knowlton fu protagonista in quell’occasione di uno dei più agghiaccianti “falsi giornalistici” degli ultimi anni (Ramonet, 1999, p.67): il servizio sulla giovane infermiera kuwaitiana che raccontava, in lacrime e con numerosi dettagli, in che modo i soldati di Saddam Hussein avessero fatto una barbara irruzione nel reparto maternità dell’ospedale di Kuwait City per impossessarsi delle incubatrici dopo aver estratto i neonati, che erano poi morti in terra… Fortunatamente, era tutto falso: la presunta infermiera era in realtà la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington, studentessa negli Stati Uniti, e l’episodio delle incubatrici era stato inventato di sana pianta da Mike Deaver (ex addetto alle comunicazioni del presidente Reagan) in collaborazione con la Hill & Knowlton.
Una decina di anni dopo, durante il conflitto in Jugoslavia, l’ufficio stampa della Nato iniziò a filtrare preventivamente la maggior parte delle notizie sui bombardamenti, in maniera da edulcorare l’impatto che avrebbero potuto avere sull’opinione pubblica. A fine marzo 1999 una nota dell’ufficio stampa della Nato diffuse la notizia della sparizione di numerosi intellettuali albanesi-kosovari, lasciando intendere che i serbi li avessero eliminati. Alla fine del conflitto si seppe che la notizia era stata completamente inventata (El Mundo, 19 giugno 1999).
In altri casi la fonte governativa agisce in condizioni di monopolio: in Spagna le notizie sull’ETA sono fornite quasi esclusivamente dal ministero degli Interni, quelle sulle carceri dalle istituzioni