Le ragioni economiche della guerra prossima ventura
Riportiamo il nostro contributo ad una recente iniziativa della Rete dei Comunisti, “Guerra alla guerra”. La questione guerra sarà sempre più l’argomento politico all’ordine del giorno, motivo per cui prima ci attrezziamo, anche culturalmente, a capirne le radici e gli sbocchi, meglio ci troveremo rispetto a chi, come spesso nel corso della storia, si troverà la dura realtà davanti in tutta la sua forza tellurica.
Indice.
Rapporto Cia. Crisi di un’egemonia. Sviluppo delle forze produttive o caduta tendenziale del saggio di profitto generale. L’attuale significato della tendenza alla guerra. Crollo dell “Evo Americano”. Nuova strategia di contenimento del nemico geopolitico. Ribaltamento politico-culturale del rapporto aggredito-aggressore. Aggressione alla Russia. L’allargamento della Nato e la questione ucraina. La questione cinese. L’assenza di una sinistra antimperialista.
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Vorrei iniziare partendo da alcuni dati di uno studio commissionato dalla CIA ad alcuni economisti ed analisti finanziari. Si tratta di un lavoro consultabile online sul sito della Goldman Sachs e che nella sua organicità propone un quadro che, forse meglio di tante altre parole, anticipa il senso del nostro contributo. Secondo questo studio, nel decennio a cavallo del 2050 il PIL della Cina è destinato a superare sia quello della Ue che quello degli USA, mentre quello indiano sarebbe diretto verso un analogo risultato anche se con diversi anni di ritardo: stiamo parlando di due paesi che già oggi rappresentano insieme più del 40% della popolazione mondiale; per contro, la crescita prevista dei paesi dell’Unione Europea e degli Stati Uniti non sarebbe superiore al 30% per ogni decade, pari a circa il 3% annuo. Si tratta ovviamente di proiezioni e non di premonizioni e come tali vanno considerate, eppure data “l’autorevolezza” della fonte è innegabile che questi dati facciamo emergere alcune questioni di fondo.
Ho voluto citare questo studio perché come collettivo crediamo che la crisi esplosa con il fallimento della Lehman Brothers nel settembre del 2008 debba essere letta anche come crisi dell’egemonia dell’imperialismo statunitense, e che solo da questa prospettiva e dalla susseguente lotta per determinare i nuovi equilibri globali sia possibile provare ad interpretare e comprendere i conflitti in corso e le spinte neocolonialiste che gli fanno da corollario.
Lo scontro imperialistico è diventato sempre più una contesa tra grandi e grandissime potenze che si confrontano in spazi sempre più stretti e in un mondo che è diventato sempre più “piccolo”. E questo determina l’innalzamento del livello di tensione mentre si complicano le possibilità di arrivare a compromessi e aggiustamenti.
Nei giorni scorsi, anche grazie a youtube, abbiamo seguito con particolare interesse i lavori del recente convegno sugli imperialismi promosso dai compagni della Rete dei Comunisti e fra le varie relazioni ci è sembrato particolarmente puntuale il tentativo di Guglielmo Carchedi di spiegare le radici della crisi legandola alla secolare caduta del saggio di profitto.
Come ricordava proprio Carchedi, nella società capitalista la caduta del saggio di profitto è un espressione alternativa per descrivere lo sviluppo delle forze produttive, il quale, determinando l’aumento della composizione tecnica e quindi organica del capitale, rende sempre più difficile l’accumulazione. In estrema sintesi, mentre cresce enormemente la produttività del lavoro sociale incorporato nelle macchine, la ricchezza (misurata in termini di valore) continua a dipendere dallo sfruttamento del lavoro vivo sempre meno necessario, e questo rende enormemente più difficile l’accumulazione. L’epifenomeno di questa contraddizione è la sovrapproduzione di merci e, soprattutto, di capitali.
Ho fatto questa breve digressione economica per due ordini di motivi: il primo è che occorre sempre ricordarsi di andare a ricercare le ragioni strutturali degli avvenimenti evitando così di autoconfinarsi in una lettura esclusivamente geopolitica e geoeconomica dei conflitti; il secondo è che, come la storia dovrebbe averci insegnato, nella fase imperialistica la guerra continua a rappresentare il modo più efficace (anche se non il solo) con cui distruggere capitali e merci eccedenti. Soprattutto quella merce particolare che è la forza-lavoro, l’unica merce che oltre ad essere in grado di generare valore ha anche la caratteristica di poter diventare carne da cannone.
La tendenza alla guerra quindi, intesa sia come ipotesi di una guerra globale quale sbocco possibile della crisi, sia come ipotesi di una serie di conflitti a basso profilo e di guerre asimmetriche, è dunque una possibilità immanente del modo di produzione capitalista nella sua fase imperialista, ed è l’unica istanza in grado di stabilire, nei fatti, quali capitali verranno distrutti, quali resteranno inutilizzati e quali ne usciranno vincitori.
Sia chiaro, non stiamo riproponendo qui l’automatismo di stampo terzinternazionalista “crisi-guerra-rivoluzione”, anche perché in più di un’occasione questo schematismo si è trasformato in un attendismo deleterio. E’ evidente però che sarà questo il quadro in cui, come comunisti, nel prossimo futuro saremo chiamati a lavorare.
Torniamo però alla tesi di partenza.
Dopo la vittoria della Guerra Fredda da parte degli Stati Uniti molti, anche nella sinistra occidentale, si persuasero che ciò che si profilava all’orizzonte sarebbe stata l’epifania dell’avvento dell’Evo americano. Erano i tempi, per chi se lo ricorda, in cui lo storico Fukuyama annunciava al mondo la “fine della storia”. Oggi possiamo tranquillamente dire che questa fase appartiene ormai al passato.
E’ infatti innegabile come nei rapporti di forza tra Paesi gli Stati Uniti abbiano progressivamente perso il vantaggio competitivo in numerosi campi. Dal secondo dopoguerra essi hanno visto ridursi, e poi scomparire, la supremazia in moltissimi campi industriali e tecnici. In campo finanziario si sono trasformati da paese prestatore di ultima istanza nella nazione più indebitata del mondo e l’ultima grande certezza del potere statunitense sembra essere il ruolo centrale del dollaro nel sistema monetario internazionale, ruolo garantito dalla disponibilità di un potente apparato militare nucleare e convenzionale.
Anche in questo campo però appare a rischio la tenuta di una supremazia che se è ancora assoluta sul piano tecnologico viene invece progressivamente logorata sul piano demografico e sul piano finanziario dal tentativo di ridisegnare quello che Condoleezza Rice definì il “Nuovo Medio Oriente”.
Pensare però che il semplice indebolimento imperiale statunitense sia sufficiente a produrre un cambiamento negli equilibri globali o che questo possa avvenire in maniera indolore sarebbe un grave errore. E’ utile forse ricordare la filosofia che animava il cosiddetto “Piano Wolfowitz”, un documento ufficiale commissionato nel 1992 dall’allora segretario della Difesa statunitense Dick Cheney, in cui veniva chiaramente esplicitato che l’obiettivo statunitense per gli anni a venire fosse quello di “prevenire il riemergere di un nuovo rivale, sul territorio dell’ex Unione Sovietica o altrove, che possa costituire una minaccia dello steso ordine di quello rappresentato in passato dalla Russia”.
E’ in questa prospettiva che vanno dunque inquadrate le diverse guerre locali, i colpi di Stato camuffati da “rivoluzioni colorate” e i tentativi di destabilizzazione contro questo o quel paese, non ultimo la Siria. Le iniziative più rilevanti di strategia militare e politica di cui è protagonista l’Occidente, tutte queste mosse e tutti questi processi, nonostante la loro estrema diversità, rivelano a nostro avviso a uno sguardo più attento un tratto comune: l’intento di mettere sempre più in difficoltà la Russia e soprattutto la Cina.
E un’analoga lettura può essere fatta del TTIP, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, questa sorta di “Nato economica” che dovrebbe nascere dall’integrazione dell’Ue e degli Stati Uniti e che darebbe vita a un soggetto economico-politico tale da mantenere a lungo l’egemonia politica, economica e militare globale. L’integrazione tra le due sponde del “lago atlantico” darebbe infatti luogo ad un soggetto di oltre 800 milioni di consumatori, capace di condizionare i mercati mondiali. E rappresenterebbe inoltre oltre la metà del prodotto lordo, con circa 32 trilioni di dollari rispetto ai 61 trilioni di dollari del Prodotto lordo globale.
Queste riflessioni, che in questa sala possono apparire perfino ovvie, sono però largamente minoritarie nel campo della sinistra di classe, dove spesso si continua a coniugare la parola imperialismo al singolare, e vengono addirittura ribaltate nel campo più largo della sinistra genericamente intesa, tanto in quella moderata che in quella sedicente radicale dove non di rado viene completamente avallato il ribaltamento di ruolo tra aggredito e aggressore.
Ci sono qui oggi i compagni del Comitato per il Donbass antinazista che sicuramente saranno più esaurienti in merito, ma guardiamo ad esempio alla vicenda ucraina, descritta dai media mainstream come un invasione russa, e pensiamo a come questa lettura sia stata fatta propria anche da molti compagni che ormai sembrano incapaci perfino di unire i puntini come si fa con le vignette della settimana enigmistica.
Senza per questo dover rischiare di essere accusati di nutrire qualche simpatia per Putin è più che evidente che ad essere stata aggredita è la Federazione russa. E non da oggi. Dal 1991 abbiamo assistito alla marcia verso oriente della Nato. Questa avanzata è avvenuta al prezzo della sistematica manomissione degli impegni contratti con Mosca prima della riunificazione tedesca, quando tanto l’allora ministro degli esteri tedesco Genscher quanto il segretario di Stato Baker garantirono formalmente a Gorbaciov che non ci sarebbe stata nessuna espansione dell’Alleanza Atlantica verso est.
Da allora invece sono entrati nella Nato: Albania, Croazia, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Romania, Bulgaria, Polonia e stati baltici. Mentre sono in procinto di entrarci anche la Moldavia, la Georgia e… l’Ucraina visto che lo scorso 28 agosto il primo ministro ucraino aveva annunciato l’intenzione di Kiev di revocare lo status di paese neutrale in modo da perseguire speditamente verso l’integrazione nella Nato.
Dopo il 1991 la Russia ha arretrato la sua frontiera occidentale di quasi 1000 chilometri, dal confine tedesco orientale alla frontiera con la Bielorussia. Se Washington riuscisse davvero ad inserire stabilmente l’Ucraina nel blocco occidentale la Russia diverrebbe automaticamente indifendibile. Il confine con la Bielorussia e il lungo e piatto confine sud-occidentale non offrirebbero, infatti, alcun ostacolo all’ingresso di un potenziale invasore.
Al momento grazie ai precari accordi di Minsk, che hanno rappresentato un’innegabile vittoria per la Russia, Putin è di fatto riuscito a trasformare la ribellione popolare delle regioni dell’est in un conflitto civile irrisolto. Se da una parte questo rappresenterà un peso insopportabile per qualsiasi governo ucraino ponendo una forte ipoteca sul futuro del paese, d’altro canto questa fragilità strutturale non potrà che determinare un sempre maggiore coinvolgimento diretto o indiretto della Nato nella guerra civile.
Con il colpo di stato di Majdan si è aperta in ogni caso una fase di “piccola guerra fredda” che rischia, giorno dopo giorno, di trasformarsi in una “grande guerra calda” e di perdere il suo carattere di competizione locale per assumere una dimensione globale, vista anche la posta in gioco della partita in corso.
Per il momento l’amministrazione Obama, di fronte all’aggravarsi della crisi, ha evitato di assecondare gli istinti bellici dei neocons e su questo ha inevitabilmente pesato il fatto che quella con la Russia sarebbe tutto fuorché una “guerra asimmetrica” sulla falsa riga delle aggressioni succedutesi in questi anni contro i cosiddetti “stati canaglia”.
La situazione però sta mutando abbastanza rapidamente in peggio visto che Obama e Rasmussen, durante il vertice Nato dello scorso 4 settembre, hanno annunciato la costruzione di una forza d’intervento immediato che avrà cinque basi deposito in Estonia, Lituania, Polonia e Romania alla quale sarebbero chiamati a partecipare tutti i paesi dell’Alleanza Atlantica.
E non si tratta di una misura d’eccezione, dettata dall’inasprirsi del conflitto ucraino, ma si configura invece come una mossa ben pianificata che segue pedissequamente le linee guida del Russian Aggression Prevenction Act, un documento licenziato dal Congresso lo scorso anno.
Sempre in merito alla tendenza alla guerra ci sarebbe da parlare, e molto, della Cina e del progressivo spostamento verso il pacifico del baricentro militare statunitense, ma questo ci porterebbe via molto tempo.
Aggiungo solo, però, che per quanto riguarda il gigante asiatico, analisti e strateghi statunitensi non hanno difficoltà a rivelare il loro piano: si tratta di fare in modo che i rifornimenti energetici della Cina, priva di essenziali materie prime quali il petrolio ed il gas, siano il più possibili esposti ai colpi di forza della strapotente marina militare degli Usa.
Così come diventa sempre più facile leggere analisi prodotte dai think tank statunitensi sul possibile smembramento del Paese nelle “sette Cine” oppure in tante Taiwan, magari grazie a spinte secessioniste provenienti dall’interno appoggiate, ovviamente, dalle cancellerie e dell’opinione pubblica occidentale.
A fronte di questo quadro che ho sommariamente tratteggiato e anche al netto delle possibili drammatizzazioni teoriche di cui possiamo essere vittime noi stessi, quello che emerge clamorosamente è l’assoluta latitanza della sinistra occidentale, sia sul piano dell’analisi che su quello della mobilitazione.
Pensiamo che sia indispensabile iniziare a ricostruire un punto di vista dei subordinati, e iniziative come questa vanno sicuramente nella giusta direzione.
Occorre provare anche a rilanciare la mobilitazione, magari ripartendo dall’opposizione alla presenza delle basi Nato sul nostro territorio.
Ma occorre pure, e questo è forse il compito più urgente che abbiamo davanti, ingaggiare una battaglia delle idee nel nostro campo contro l’influenza nefasta di quella “sinistra imperiale” che oggi svolge la stessa funzione che svolgevano i missionari cristiani durante il colonialismo. Fornendo così una copertura ideologica all’espansionismo occidentale in nome di una crociata dei “diritti umani”, ovviamente amputata di ogni riferimento ai diritti sociali e al diritto all’autodeterminazione dei popoli, che fa da apripista al passaggio dei cacciabombardieri.