L’egemonia irrazionale
Seguendo il filo dei ragionamenti che le destre esprimono nelle recenti vicende legate al trasferimento di famiglie rom nella periferia romana, si scopre una trama di contraddizioni da cui è davvero difficile tirarne fuori una logica. Perché una logica, in politica, è sempre rinvenibile, anche quando esprime una visione del mondo opposta alla nostra. Lo smantellamento dei campi rom è da sempre una bandiera della destra d’ogni risma. Una bandiera sacrosanta, lasciata colpevolmente alla destra per ignavia, codardia, per quel “parlar d’altro” che da tempo la sinistra oppone verso qualsiasi problema immediato della periferia. E invece no, va ribadito con forza che i campi nomadi sono luoghi d’inciviltà e di degrado sociale, che impoveriscono tanto chi ci sopravvive quanto il vicinato residente, sempre residente in periferia peraltro. I nomadi non sono (solo) vittime, quanto corresponsabili della situazione: nei campi si determinano privilegi e servitù coatte che replicano tanto l’asservimento dei più deboli verso i più forti, all’interno, quando l’asservimento del territorio al monopolio della sopraffazione, all’esterno. In altre parole, lo smantellamento dei campi è questione di civiltà, non di razzismo. Il problema, va da sé, è nella modalità di gestione della chiusura dei campi, nelle alternative predisposte. Questo dovrebbe differenziare l’approccio “di sinistra” da uno “di destra”. Eppure anche la destra dovrebbe trovarsi concorde su di un punto: dal campo nomadi se ne esce con una casa. Perché senza la casa lo smantellamento di un campo costituirebbe solo la premessa per la ricostruzione di un insediamento abusivo in qualche altro luogo poco distante. Nella logica del censimento per redditi, chi ne ha le possibilità sarà invitato a trovarsi una casa nel libero mercato dei mutui o degli affitti; chi vive condizioni di povertà o precarietà economica, avrà accesso ai servizi sociali predisposti e inserito dunque anche nelle liste dell’Edilizia residenziale pubblica. Non se ne esce da questa logica elementare: l’alternativa al campo nomadi è la casa, di proprietà per chi se lo può permettere, popolare per chi sta sotto una determinata fascia di reddito.
L’assegnazione della casa popolare alla famiglia Omerovic a Casalbruciato risponde dunque ad una logica perfettamente compatibile con le richieste della destra: svuotare gli insediamenti abusivi per regolarizzare e legalizzare situazioni sociali ai limiti o fuori dalla legalità. C’è poi un altro fattore da tenere in considerazione. Al fine di evitare la riproduzione di ghetti nomadi in determinate zone di Roma concentrando tutta la popolazione proveniente dai campi in pochi grandi luoghi, e al fine anche di una possibile integrazione (oggi estremamente lacunosa) tra nomadi e popolazione locale, l’unico strumento è quello di distribuire per tutta la metropoli quegli stessi nomadi oggi residenti in campi abusivi posti ai margini della città. Ovviamente – e siamo i primi a richiederlo – questi nomadi devono trovare residenza legale e garantita anche nella città consolidata, laddove possibile – laddove cioè presente patrimonio immobiliare pubblico. Però, anche qui ci sembra una ovvietà, la dispersione territoriale prevede l’assegnazione di case anche in periferia. Sempre seguendo la logica reazionaria della destra, ma in questo perfettamente compatibile in teoria con una sacrosanta logica d’integrazione e di soluzione dell’illegalità diffusa prodotta dai campi, l’unica soluzione possibile è esattamente quella avvenuta nel caso di Casalbruciato: l’assegnazione di una casa a una famiglia proveniente dai campi illegali. E allora, la domanda sorge spontanea – come avrebbe detto Antonio Lubrano: per o contro cosa protestano i fascisti a Casalbruciato? Perchè se non si vogliono i campi, non si vogliono i servizi sociali (come a Torre Maura), non si vuole l’assegnazione di case per chi è regolarmente in graduatoria Erp, quale dovrebbe essere la fine di queste persone che pure, nella maggior parte, sono italiane, dunque non è possibile richiederne nemmeno l’espulsione, sempre seguendo la logica irrazionale del discorso razzista? Una domanda a cui non c’è risposta, perché prevedrebbe una logica coerente, un suo principio di non contraddizione, in base al quale se dico X (ad esempio, lo smantellamento dei campi rom), allora è implicita e inevitabile una soluzione Y (il passaggio delle famiglie dai campi a case).
Ovviamente la domanda è retorica. Non c’è nessun fondamento razionale nelle proposte della destra, visto che l’obiettivo politico è quello di aggregare consenso elettorale declinando in chiave reazionaria e razzista temi che pure hanno un loro fondamento. Alcuni dati di fatto agitati dalla destra in questi giorni sono effettivi ma, anche qui, il problema non è l’abilità della destra nel coglierli, quanto l’incapacità della sinistra di saperli maneggiare: in primo luogo, nei territori cittadini già stressati da carenze sociali di vario tipo (lavoro sottopagato, disoccupazione, traffico, buche, impossibile mobilità pubblica, precarietà abitativa, assenza di offerta culturale, eccetera) non possono essere scaricati ulteriori problemi sociali utilizzando la periferia come discarica delle questioni irrisolte e irrisolvibili dal Comune; secondo poi, la questione rom va affrontata con umanità ma anche con coraggio, soprattutto dalla sinistra. Basta buonismi o falsissimi afflati umanitari comprensibili solo per i residenti della città consolidata: i campi rom sono un problema, non vanno accolti o giustificati, ma combattuti. Ovviamente combattere i campi non significa prendersela con il soggetto nomade, con l’individuo, la famiglia: non è una questione di razzismo, ma di civiltà. Vanno combattuti assegnando case popolari, per chi ne ha diritto, favorendo l’integrazione della cittadinanza, non replicando cittadinanze di serie A e di serie B in base alla distanza dal centro cittadino o al reddito disponibile. In terzo luogo, l’esasperazione della plebe – plebe e non più proletariato, attenzione – che dimora la periferia va compresa e non ridicolizzata. Comprenderla non significa accettarla così come si manifesta immediatamente, tanto meno assecondarla nei suoi istinti plebei, per definizione egoistici, ma coglierne l’elemento materiale, l’insofferenza reale, alla radice dei fenomeni di rivolta. Una rivolta che è sempre mimata, simulazione di rivolta, agitazione di temi che rimangono in superficie tanto nel merito e nelle proposte, quanto nelle modalità messe in campo: qualche coro razzista, due dirette Facebook, e tanto basta ai media liberali a dipingere una fisiologica escrescenza popolare in “rivolta”, “ribellione”, “sommossa”. Termini che costruiscono una cornice narrativa inesistente nella realtà, ma percepita come reale, scambiando i quaranta neofascisti di Casapound, accompagnati da circa 7-8 persone di Casalbruciato, per ribellione popolare di quartiere. A Casalbruciato non c’è stata nessuna ribellione popolare, nessun quartiere in agitazione, nessun moto di Reggio Calabria in sedicesimi. Neanche due cassonetti sono riusciti a bruciare, questi replicanti di un sottoproletariato evocato ma sconosciuto. Solo il combinato disposto di attivismo neofascista e megafono mediatico, sulla pelle di una famiglia vittima di quella stessa logica reazionaria che, nel momento stesso in cui chiede lo smantellamento della precedente residenza, si attiva per rispedire nei campi chi ne era appena uscito. La distruzione della ragione, avrebbe chiosato Lukàcs.