L’enigma antipopulista
Prima o poi, inevitabilmente, la luna di miele populista finirà. Dubitiamo che questa fine avverrà per incapacità politica delle forze al momento al governo: nonostante lo smascellarsi invidioso delle truppe antipopuliste, M5S e Lega sanno fare politica (quantomeno meglio dei loro competitors). Forse tra qualche tempo entreremo in una fase di crescita economica talmente impetuosa da dileguare le ragioni sociali del populismo, quel rancore diffuso che trova nel governo giallo-verde lo strumento per vendicarsi di Pd e affini. Forse, al contrario, una fase di deciso rallentamento del Pil, dei salari, delle aspettative, potrebbe prosciugare l’acqua persino ai movimenti di protesta. O forse, ancora, nascerà nell’establishment un qualche uomo nuovo, à la Macron, in grado di recuperare il consenso perduto dei ceti dominanti. Per una ragione o per l’altra, insomma, il populismo entrerà in contraddizione insanabile. Al momento, però, viviamo in uno scenario completamente opposto.
Per la prima volta, ripetiamo: per la prima volta nella storia della Repubblica, il governo del paese si trova senza opposizione. I consensi al governo, attualmente, superano il 60%. Il governo populista è maggioranza assoluta, e non in Parlamento, ma nella società. E questo consenso diffuso, plateale, storico, non è causato da un “popolo” improvvisamente scopertosi fascista, reazionario, xenofobo, sciovinista, dopo che per anni aveva votato al contrario i partiti della stabilità, di cui faceva e fa ampiamente parte anche quella categoria dello spirito definita “sinistra radicale”. D’altronde, quel “popolo” è lo stesso “popolo” che votava per il Pci. Pensare di cavarsela incolpando soggettivamente quote di proletariato, di subalterni, ma anche di migranti (i migranti, come noto, votano tutti comunista, giusto) non fa che confermare l’intuizione di Brecht: «il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo» (cazzo anche Brecht utilizzava il termine popolo). Ecco, non abbiamo altri popoli a disposizione, ma questo, qui e ora. Non esistono altri proletariati disponibili alla lotta, né immaginarie emancipazioni migranti che non passano per la ricomprensione di questi dentro quel popolo che pure si dà dimostrazione di odiare.
La forza populista travolge i partiti residuali della stabilità liberista per un semplice quanto evidente motivo: persino l’elettorato di questi partiti, l’elettorato cioè del Pd, di Forza Italia, ma anche della “sinistra radicale”, appoggia contraddittoriamente lo spirito del cambiamento evocato dal governo populista. Per dire, Martina – il segretario del principale partito d’opposizione – ha dovuto fare ieri marcia indietro nella richiesta di modifica dell’indennizzo ai licenziati. Persino il gruppo dirigente del Pd, persino Martina, si è accorto di questi consensi che sfuggono da tutte le parti, di questa falla inarrestabile che prosciuga voti, elezione dopo elezione. E sfuggono perché di fronte alla proposta di aumentare gli indennizzi, le opposizione non hanno saputo dire altro che “non aumentiamo gli indennizzi”, “il lavoro non si crea per decreto” (ma allora, se non si crea per decreto, perché ogni governo vara la sua riforma del lavoro? Perché l’approvazione del Jobs act, dunque?). Da una parte una variegata quanto sconclusionata messa in scena populista che dice: aumentiamo i diritti dei lavoratori attraverso palliativi giuridici. Dall’altra un’opposizione in crisi che dice: non aumentiamo i diritti dei lavoratori. Verso chi andrà il consenso degli elettori, del popolo, del proletariato, dei migranti, se non verso i primi e contro i secondi? In assenza di alternative materiali e praticabili, in assenza di movimenti di lotta, organizzazioni di classe, di partiti comunisti, in assenza, cioè, di qualcosa che quel popolo possa capire, riconoscere e, forse, votare, verso chi dovrebbe andare, e di fatti va, il consenso del proletariato meticcio del paese? La risposta la conosce persino Martina.
Ma questo consenso diffuso prima o poi entrerà in crisi. Potrebbe essere tra sei mesi o tra sei anni. Ma quando lo farà, l’alternativa sarà la restaurazione liberista targata Pd o qualche diramazione locale del macronismo. A quel punto potremmo rispolverare le alleanze tattiche e le differenze territoriali, i candidati buoni contro quelli cattivi, il pessimo Renzi contro il bravo Zingaretti. Anzi, lo stiamo già facendo.