Libia: l’informazione negata, la guerra “umanitaria” e noi
Ieri si è svolta, presso la sede di Carta a San Lorenzo, l’iniziativa sulla Libia che abbiamo promosso insieme a Radio Città Aperta e al comitato Palestina nel cuore. Diciamo subito che erano anni che non si vedevano così tante persone interessate a temi di politica internazionale. Eviteremo di dare i numeri (in tutti i sensi), non è questo l’importante, anche se fatichiamo a ricordare sale così affollate, almeno nell’ultimo decennio, e soprattutto su questi temi. Sintomo che l’argomento non solo sta dividendo le coscienze, come abbiamo già detto, ma che sta interessando oltre ogni aspettativa tutto il vasto mondo dei compagni che si trovano in un modo o nell’altro disorientati rispetto alla dinamicità che hanno preso gli eventi. Il dato che però ci ha impressionato, e che sinceramente non prevedevamo, è stata l’attenzione e la partecipazione addirittura emotiva del pubblico. Tutto questo, se non altro, ci fa ben sperare per il futuro. La volontà, il bisogno di capire; al di là di quello che ci raccontano gli organi di informazione, embedded o meno, e che troppo semplicisticamente qualcuno ha preso per buoni sin da subito, abituato a ragionare partendo dalle proprie opinioni piuttosto che dai fatti che accadono. E proprio questo è stato uno dei punti centrali dell’iniziativa: la scomparsa dei fatti. Tutti i commentatori, più o meno di sinistra, più o meno democratici, hanno cercato, durante tutto questo stravolgimento politico avvenuto nel nord Africa, di adeguare i fatti alle proprie opinioni. Non partendo da un’analisi di ciò che stava accadendo per derivarne un pensiero politico più generale, ma partendo da una conclusione per ritrovare mano a mano solo quella serie di fatti che ne confermavano i ragionamenti. E tutto questo è stato smascherato, anche abbastanza agevolmente, dal giornalista di Rai News presente, che ci ha fatto capire bene i meccanismi dell’informazione mainstream, che non solo costituiscono le cosiddette fonti da cui si traggono determinati ragionamenti, ma che sono addirittura la causa principale che costituisce quell’humus politico-culturale che poi porta all’avallo dei bombardamenti. Otto anni fa il New York Times avrebbe definito i movimenti contro la guerra la seconda potenza mondiale. Otto anni dopo, proprio quel lavoro di disinformazione portato avanti dai media, ha fatto cascare troppi compagni nella logica del dittatore da abbattere, smontando quel processo di mobilitazione e creando così le basi per l’intervento “umanitario” libico. E che fa sbandare anche adesso, sotto i bombardamenti nel neo-colonialismo europeo, diversi compagni, entrati ormai nella logica del male assoluto rappresentato da Gheddafi e del male minore rappresentato dai bombardamenti Nato. In realtà è la stessa logica di sempre: meglio una democrazia americana, magari non perfetta, al dittatore sanguinario sterminatore di popoli. E’ un copione che si ripete costantemente da trent’anni, da Solidarnosc a Saddam Hussein, da Chávez a Ajmadineijad. Ogni area geo-strategica che non riesce ad essere controllata viene fatta oggetto, prima dell’intervento umanitario militare, di un processo ideologico che dura anni, e che crea appunto quelle basi culturali e politiche di accettazione delle bombe, al limite come, appunto, male minore. La differenza, estrema e sostanziale, che sta avvenendo oggi è il nostro atteggiamento: mentre anni fa non ci cascavamo, anche fossimo stati gli ultimi indiani a lottare contro il resto del mondo, oggi sono proprio le nostre coscienze ad essere travagliate dal dilemma: dittatore o bombe umanitarie? Noi vogliamo uscire da questa logica, ed è proprio questo il significato profondo del senso dell’iniziativa di ieri e delle iniziative che faremo in futuro. Ma non anticipiamo altro ed anzi, proprio per socializzare gli interventi che si sono susseguiti, inseriremo al più presto l’ audio degli interventi di ieri, sperando che possano essere proficui rispetto ad un ragionamento collettivo che abbiamo tardato anche troppo a promuovere.