L’imperialismo USA e le sue contraddizioni
La crisi siriana ha palesato come non mai la difficoltà statunitense a rimanere unica potenza egemone nelle maggiori aree strategiche mondiali. Fino anche a pochi anni fa gli Stati Uniti avrebbero avuto ben altra risolutezza nell’affrontare la questione. Oggi si dibattono in una serie di atteggiamenti contraddittori, che delineano non tanto la loro perdita di controllo, quanto soprattutto la loro mancanza di una visione strategica. La richiesta di Obama di un appoggio esplicito alla guerra da parte del senato sta lì a dimostrarlo. La domanda di sostegno infatti non è stata pensata per avere un’ulteriore legittimazione all’intervento militare, ma per prendere tempo. Quello che manca agli USA, oggi, è la definizione dell’obiettivo politico dell’intervento militare. I presidenti se ne sono sempre fregati dell’appoggio o meno del congresso, e anche oggi non è certo questo che preme a Obama. Al presidente americano manca il tempo di costruire l’obiettivo politico di questo suo intervento. E l’affanno col quale si dimena il gigante nordamericano nel capire chi appoggiare e in quali forme, descrive meglio di tante parole la mancanza di una visione strategica definita. Fino a pochi anni fa, schematizzando, la guerra era preceduta dal finanziamento dell’opposizione al governo nemico di turno; dalla costruzione di alleanze internazionali tali da garantire il successo diplomatico; dall’instaurazione del governo fantoccio una volta terminato il conflitto. Oggi tutto questo non è presente, per costruirlo serve del tempo che Obama non ha. Non c’è nessun referente siriano credibile che posa prendere concretamente il posto dell’attuale governo; la diplomazia si è mossa tardi e male, creando al contrario un vasto fronte contro la guerra, guidato simbolicamente addirittura dal Papa; Cina e Russia, diversamente che in Iraq e in Afghanistan, appoggiano apertamente Assad, complicando la questione.
Certo, la questione Assad dev’essere risolta, e nel breve periodo potrebbe anche darsi che gli USA puntino alla completa dissoluzione dell’apparato statale, sul modello somalo o iracheno. Ma è, appunto, una visione ristretta e gravida di insidie. Se infatti nell’immediato agli USA (e a Turchia e Israele), può tornare utile uno Stato fallito, rapidamente rimpiazzato dalle multinazionali intente a ricostruirlo a immagine e somiglianza del liberismo anglosassone, nel corso del tempo è necessario alle potenze occidentali un governo amico e innocuo, e non un coacervo di conflittualità permanente dove potrebbe nascere un ipotesi politica anti-americana ben più grave dell’attuale governo siriano. L’esperienza in Iraq infatti ha lasciato il segno. Sebbene al momento il governo iracheno è inevitabilmente impossibilitato a esprimere qualsiasi posizione politica indipendente, il fatto di aver messo in mani sciite il comando politico ha fatto immediatamente gravitare questo paese nell’orbita politica iraniana. Aver sostituito Saddam Hussein con un governo potenzialmente filo-iraniano rischia di aver prodotto per gli USA un problema ben maggiore di quello rappresentato da Saddam. Questo è esattamente quello che si sta cercando di evitare in Siria. L’esercito ribelle ha portato la guerra in Siria per procura. Altri attori stanno muovendo le loro pedine, e se l’opzione saudita rappresenta quella tutto sommato gestibile, altre potrebbero costituire un problema ben più serio. Le frange salafite potrebbero infatti rappresentare un grosso problema per Israele, e di conseguenza per gli USA. Oltretutto, nonostante sia un alleato NATO, un’ulteriore espansione dell’influenza politica turca in quella regione potrebbe non essere accolto da USA e Israele con soddisfazione. Non è più infatti la fase della Turchia completamente appiattita sul fronte occidentale, che richiedeva un ingresso nella UE e si ergeva a baluardo degli interessi occidentali nella regione. La Turchia di oggi, nonostante sia ancora un amico dell’occidente, guarda molto di più all’influenza nella regione mediorientale che a un suo ruolo in Europa. Questo non è un problema immediato, ma nel futuro prossimo un suo allargamento troppo evidente porterebbe inevitabilmente a contrasti d’egemonia economica nella regione.
Alla luce di tutto questo, al governo statunitense serve coltivare delle relazioni in Siria che al momento non ha, o che sono troppo deboli per essere credibili. All’opposto, la necessità economica alla guerra nell’immediato probabilmente prevarrà, portando nonostante tutto l’esercito statunitense ad intervenire. Ma la mancanza di questa visione strategica è un segnale importante da rilevare. Oggi gli interessi russi e cinesi non sono più disponibili a mediazioni al ribasso in quelle aree. Oggi quei territori costituiscono lo scontro fra due tentativi d’egemonia politica ed economica a cui gli USA giungono impreparati e senza visione strategica sulle conseguenze politiche del loro intervento. Il traccheggiamento statunitense è una novità colma di conseguenze per i futuri destini politici di quelle aree e, più in generale, per le dinamiche imperialiste globali.