L’impossibile governabilità
La montagna ideologica mobilitata sul tema della governabilità continuerà a partorire inutili sorci giuridici. Il tentativo di garantire un governo stabile, duraturo ed eletto dai “cittadini” sfruttando la leva della riforma elettorale seguirà a produrre i perversi effetti di questi anni, proprio perché da decenni in Italia è presente un clamoroso fraintendimento riguardo alla dibattito intorno all’assetto istituzionale. Conviene infatti ricordare che in Italia vige un sistema parlamentare, e non uno presidenziale. Nel sistema italiano, pensato proprio per evitare fughe autoritarie, il governo non viene eletto direttamente dai cittadini attraverso il voto, ma dal Parlamento attraverso accordi parlamentari frutto dei risultati elettorali. Nelle repubbliche parlamentari è infatti vietato indicare il nome del candidato presidente del consiglio, proprio perché questo deve essere deciso dal Parlamento. Questo passaggio è stato allegramente bypassato in questo ventennio, producendo un presidenzialismo di fatto che però confliggeva col sistema parlamentare, producendo l’attuale stallo in cui stanno morendo tutti i partiti in Parlamento. Inutile specificare come il sistema parlamentare sia efficacemente molto più democratico rispetto a quello presidenziale. Nel primo, gli elettori votano l’organizzazione politica, e l’insieme dei risultati elettorali andrà a costruire il rapporto di forze attraverso cui i partiti concorderanno il governo specchio di quel voto. Il sistema presidenziale, o a elezione diretta, all’opposto, garantisce a un’infima minoranza della popolazione, in genere neanche il 30%, di eleggere direttamente il presidente, e attraverso questi il governo, senza alcun potere contrattuale dell’opposizione. Chi vince prende tutto: presidente, governo e maggioranza parlamentare. Il problema è che il vincitore lo diviene appunto con la metà della metà della popolazione. Con un ipotetico risultato elettorale del partito X al 30%, quello Y al 20% e quello Z al 10%, nel sistema parlamentare il partito X contratterà, da una posizione di forza ma non assoluta, il governo; nel sistema presidenziale, il partito X col 30% prende tutto e governa senza alcun impedimento. Il passo indietro democratico è evidente. Con l’attuale riforma elettorale, premessa di una più generale riforma istituzionale e costituzionale, la rappresentanza politica diviene inutile al di fuori dei due partiti più grandi che si alternano di volta in volta al potere. Questo impedirà all’origine ogni possibile rappresentanza di classe.
Quel tipo di governabilità che i partiti maggiori ricercano, e cioè la possibilità di governare con la maggioranza assoluta a prescindere dal risultato elettorale, non potrà mai essere perseguita se rimane vigente il sistema parlamentare. E’ infatti in Parlamento che si formano i governi, e non tramite il voto degli elettori. Distorcere fino all’inverosimile la volontà elettorale potrà produrre solo una maggiore forza contrattuale del partito di maggioranza relativa, ma non instaurerà per legge la governabilità. L’unico modo scientifico per rendere possibile la governabilità è rendere inutili, o inservibili, tutti i voti contrari al partito che vince le elezioni. Esattamente quel che accade in tutti i sistemi presidenziali, come la Francia o gli Stati Uniti. Dunque, è un dibattito viziato all’origine. In questo dibattito si sente però forte il silenzio della sinistra di classe, divisa tra propositi fintamente democratici come le primarie e malcelata contentezza per la scomparsa dei piccoli partitini concorrenti alla rappresentanza delle varie mobilitazioni sociali presenti sul territorio. Anche sulle primarie, sarebbe ora di esprimere qualche ragionamento netto. Narrate come strumento di democratizzazione della politica, ne costituiscono l’esatto opposto. La spinta americanizzante dell’elezione diretta, senza mediazioni organiche, del leader del partito, a prescindere dalla discussione interna, dal ruolo dei militanti, della struttura partitica, rappresenta l’ennesimo passo verso lo svuotamento totale del rapporto tra organizzazione politica e popolazione. Questo infatti è efficace se basato sulla consapevolezza. La primarie impediscono questa consapevolezza, delegando al cittadino comune la scelta della dirigenza e le sorti politiche del partito, che dovrebbe essere l’espressione organizzata dei suoi militanti, e non il contenitore civico della popolazione intesa in senso indistinto. La scelta del rappresentante dovrebbe essere un processo democratico interno alla struttura politica, frutto di una discussione collettiva che inizia nei congressi di sezione e termina col congresso nazionale, espressione delle tendenze interne all’organizzazione politica. Le primarie impediscono questo processo, sostituendolo con la scelta diretta tra i candidati che hanno più potere, soldi e/o possibilità di apparire sui canali in cui si viene formando l’opinione pubblica. Non diventa più necessario conoscere la vita dell’organizzazione, formarsi un’opinione, discuterne con gli altri appartenenti, costruirsi cioè una consapevolezza di cosa sia più o meno adeguato al partito in questione. Scavalcando questa filiera democratica, gli unici rappresentanti potenzialmente votabili diventano coloro che presenziano meglio i media mainstream, quelli più invitati nei talk show, quelli che possono permettersi il maggior numero di manifesti elettorali. Con buona pace del processo effettivo di coinvolgimento della base.
Tornando dunque allo spunto iniziale, è piuttosto un discorso di prospettiva che dovremmo porci. Nonostante il nostro attuale astensionismo, che reputiamo ogni giorno più giusto proprio in virtù dell’evoluzione del sistema politico e dell’offerta elettorale, non possiamo non notare come lo smantellamento di ogni ipotesi di rappresentanza democratica renderà impossibile in nuce qualsiasi ipotesi di rappresentanza sostanziale. Anche per quella rappresentanza di classe che in un modo o nell’altro, prima o poi, tornerà a far sentire la propria voce.