L’incubo Expo. Da incubatore del Jobs act a Zona economica speciale

L’incubo Expo. Da incubatore del Jobs act a Zona economica speciale

 

Che l’Expo sia stato un progetto pilota volto alla riforma del mercato del lavoro, derubricando la contrattazione nazionale in favore di apposite contrattazione speciali, istituendo il lavoro gratuito e/o volontario, sancendo il licenziamento economico, eccetera, non lo scopriamo di certo oggi ed è stato il cuore del ragionamento che ci ha spinti alla manifestazione del primo maggio a Milano. Un progetto da cui conseguentemente è scaturita la riforma denominata “jobs act”, basata proprio sulle novità in tema di mercato del lavoro sperimentate all’esposizione milanese. Fosse anche la più bella fiera mai vista, basterebbe questo fatto a decretarne la totale nemicità per gli interessi della popolazione lavoratrice, che proprio all’Expo deve l’abolizione del contratto nazionale a tempo indeterminato (sostituito dal contratto “a tutele crescenti”), a cui sono seguite tutta una serie di bazzecole accessorie come l’abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Per di più l’esposizione, lungi dall’essere interessante, si presenta come immane boiata turbocapitalista ad uso e consumo del turismo benestante. Non è tanto il livello medio dei prezzi, dal biglietto d’ingresso al costo dei pasti, tutti ben al di sopra le normali disponibilità di una famiglia anche agiata, quanto l’idiozia dei padiglioni, una Disneyland della promozione turistica che ovviamente ha perso per strada qualsiasi riferimento al tema portante dell’esposizione, la questione del cibo e della sua accessibilità. Tralasciando anche la questione ambientale (110 ettari pubblici agricoli donati gratuitamente a costruttori privati), e quella politica (miliardi di denaro travasato dalle casse statali a quelle private proprietari di terreni e costruzioni), c’è un fatto che in questi giorni si sta imponendo nella discussione padronale per massimizzare i profitti già ampiamente massimizzati: che fare dopo? Ecco che la tragedia si trasforma in incubo, perché la proposta che va per la maggiore è quella di rendere tutta l’area destinata all’esposizione una “zona economica speciale”(Zes) sul modello cinese. In pratica, un pezzo di territorio sottratto alle leggi dello Stato e concesso all’autoregolazione degli investitori economici: niente più contrattazioni collettive, niente più giurisdizione – economica e burocratica – nazionale, niente più imposizione fiscale, e molti altri eccetera. Esattamente come la fascia costiera cinese, il porto di Shangai, Shenzen et similia, la zona Expo diverrebbe territorio a sé stante, formalmente in Italia ma rispondente ad altre leggi e ad altre forme di regolamentazione delle attività economiche. Nello specifico, ci chiarisce le idee Pietro Paganini che sul Corriere ci illustra le basi del progetto: revisione legislativa (ad esempio in Honduras o a Dubai all’interno delle Zes vige una legislazione differente dal resto dello Stato); abbattimento fiscale e “garanzia dei diritti di proprietà”; abolizione dell’amministrazione pubblica. Proprio come l’Expo è servito da terreno di sperimentazione per l’attuazione della riforma del mercato del lavoro, da anni le Zone economiche speciali costituiscono progetti sociali al fine di generalizzare le sperimentazioni economiche operate al proprio interno. Il 31 ottobre prossimo rischiamo allora di non liberarci dal baraccone ordoliberista, ma di ritrovarci nel pieno di una nuova fase di sperimentazione neoliberista.