L’inevitabilità della Ue nelle fusioni industriali

L’inevitabilità della Ue nelle fusioni industriali

 

Col passare del tempo l’Unione europea diviene sempre più un processo inevitabile. E’ bene rendersene conto: uscita intatta dalla crisi economica, difficilmente entrerà in crisi politica di qui a breve. Passi falsi, incomprensioni e competizioni nazionali rimarranno all’ordine del giorno, ma nessuno di questi rallentamenti avrà la forza di interrompere il consolidamento della Ue. Soprattutto per un motivo: complice la crisi, negli ultimi anni molte delle aziende strategiche dei paesi europei sono andate fondendosi tra loro. Conviene ricordare che il progetto europeista nasce esattamente dalla condivisone industriale: attraverso la Ceca – Comunità europea del carbone e dell’acciaio – prendeva forma una relazione industriale che sostanziava l’unione politica. Nell’ultimo anno il processo di fusione industriale ha subito un’accelerazione traumatica, silenziata nei suoi significati politici: l’Opa di Atlantia (Italia) su Abertis (Spagna) nel settore autostradale; l’accordo Stx (Francia) con Fincantieri (Italia) nella cantieristica navale civile e militare; la fusione, tutta italiana, tra Fs e Anas, tale da creare un “campione” europeo nei trasporti ferroviari e autostradali, avvenuta peraltro in risposta alla fusione tra Siemens (Germania) e Alstom (Francia) nel settore trasporti autostradali, ferroviari e navali. In altre parole: Germania, Francia e Italia procedono integrando le proprie economie nei settori decisivi. Il punto di non ritorno sembra ormai superato. Manca solamente l’unione bancaria a sostanziare, attraverso la leva finanziaria, un paesaggio industriale sempre più integrato. Ed è proprio questo il terreno su cui Francia e Germania stanno procedendo all’accordo che completa l’inevitabilità della Ue (accordo sull’unione bancaria che è alla base della grande coalizione tedesca appena approvata dal congresso della Spd). Una volta completata la centralizzazione bancaria e concessa una forma (ridotta) di condivisone del debito attraverso Eurobond mascherati (contropartita di un ulteriore irrigidimento della cornice finanziaria di ciascun paese), tornare indietro non sarà più materialmente possibile, pena il fallimento – questa volta sicuro e non minacciato dai “mercati” – dello Stato in questione.

Oltre a ciò, le fusioni prima ricordate contribuiscono a chiarire la direzione dell’euro-liberismo uscito ammaccato ma non ucciso dalla crisi. In primo luogo, l’economia europea procede inevitabilmente creando monopoli industriali. Niente di nuovo, ma questo contraddice le teorie liberiste del libero mercato come luogo della concorrenza: quale concorrenza possibile in settori in cui il maggiore operatore pubblico-privato detiene sempre il monopolio dei movimenti e dei profitti possibili? In secondo luogo, è interessante notare come le fusioni stiano avvenendo in un unico comparto industriale, quello delle infrastrutture e dei trasporti. In altre parole, il capitalismo europeo procede integrando e razionalizzando i flussi tanto dei capitali (unione bancaria) quanto delle merci e delle persone. Non si unisce tanto la produzione manifatturiera, ma la logistica che consente il movimento delle merci prodotte. Anche questo la dice lunga sulle priorità attuali dello sviluppo liberista, secondo le quali a determinare la profittabilità delle merci è la velocità con cui queste si spostano su di un territorio. Ecco perché, di conseguenza, il blocco dei suddetti flussi diviene, per il mondo del lavoro, il primo terreno strategico d’intervento e, per il capitale, l’inconveniente principale da evitare.