L’insensato parallelo tra jihadismo e Brigate rosse. Di nuovo
Già dopo gli attentati a Parigi di novembre avevamo scritto una riflessione sull’uso strumentale dell’accusa ai jihadisti di essere come le Brigate rosse: un parallelismo disgustoso quanto frequente, come testimonia l’immagine trovata su internet che apre questo contributo, sulla quale ogni commento sarebbe superfluo. Un parallelismo bislacco, privo di senso, senza alcun valore non solo politico, ma anche storiografico. Insomma, quello che a Roma si chiama «buttare in caciara», un modo da un lato per chiamare alla sacra unione nazionale contro il nemico e dall’altro per bollare come «nemica» e «criminale» qualsiasi ipotesi di cambiamento radicale del sistema in cui viviamo.
Dopo gli attentati di martedì a Bruxelles, politici e giornalisti italiani non hanno perso tempo per riproporre l’assurdo parallelismo. Così prima di tutti Renzi, che nella conferenza stampa ufficiale ha inizialmente elogiato le forze dell’ordine italiane che avrebbero una vasta esperienza nella lotta alle emergenze – «dalla mafia, al terrorismo, al brigatismo», come se fossero la stessa cosa – e poi si è rivolto (in un crescendo che andava dal nazismo sconfitto dai nonni alla sua generazione, a coloro che hanno studiato giurisprudenza dopo gli omicidi di alcuni magistrati per mano mafiosa) alla generazione dei suoi genitori, che «hanno avuto la prova del terrorismo e del brigatismo: durante le loro lezioni all’università si sparava». Eccolo, il paragone con i cosiddetti «anni di piombo», probabilmente con l’omicidio di Vittorio Bachelet: i jihadisti colpiscono i luoghi della vita di tutti i giorni, dice Renzi, e aggiunge tra le righe che lo stesso facevano le Brigate rosse. Ovviamente, qualsiasi persona dotata di senno e di memoria sa che non fu così, che le Brigate rosse non colpivano i luoghi e le persone che li attraversavano, ma delle personalità che secondo loro incarnavano lo Stato o, comunque, un nemico di classe – degli obiettivi scelti e specifici dunque, non colpiti a caso – e anzi si preoccupavano sempre di non coinvolgere neanche per sbaglio i passanti (ad esempio, bucando le ruote del transit del fioraio ambulante di via Fani per non rischiare di coinvolgerlo nel rapimento di Moro). Non era terrorismo, quello brigtista, ma lotta armata, guerriglia urbana. Però, come dicevamo, al di là del giudizio che si possa dare sulle azioni brigatiste, ci vogliono senno, memoria e – soprattutto – buona fede e onestà intellettuale, per cogliere la differenza con il terrorismo odierno. Quattro doti di cui Renzi è evidentemente privo.
Renzi, però, non è stato certo l’unico. Ecco, quindi, che neanche Roberto Maroni ha potuto fare a meno di dire la sua: «Siamo tornati agli anni di piombo: serve un intervento urgente e di emergenza democratica, come si fece contro il terrorismo delle brigate rosse». Giusto, aggiungiamo noi, finalmente un po’ di onestà: perché chiaramente invece allo Stato di sconfiggere il terrorismo vero – quello che metteva le bombe sui treni e nelle piazze – gliene è sempre importato molto poco, l’emergenza era contro la lotta armata delle Brigate rosse. Abbiamo poi avuto il noto ex prefetto Achille Serra, che ha invitato a non essere spaventati: «Non dobbiamo farci vincere dalla paura e rintanarci dentro le case. Non lo facemmo durante il periodo delle brigate rosse e non dobbiamo farlo adesso». Perché, secondo Serra, un comune cittadino avrebbe dovuto avere paura delle Brigate rosse resta, francamente, un mistero: era del terrorismo fascista che, semmai, si aveva paura, perché era quello che colpiva i civili. Se certo non possiamo aspettarci un minimo di conoscenza storica da Maroni, almeno da un uomo dello Stato allora in servizio questo sembrerebbe il minimo. Ma, appunto, oltre alla memoria serve anche un po’ di buona fede.
Altre idiozie sono poi uscite dalla bocca di quelli che chiedono a tutti i musulmani di dissociarsi dagli attentati, ponendo fine a quell’area di contiguità la cui venuta meno avrebbe determinato il crollo delle Brigate rosse. Insomma, una condanna a posteriori di gran parte della classe operaia italiana. Così, ad esempio, Il sole 24 ore, su cui si è scritto che «una cosa che stride soprattutto agli occhi di noi italiani, che il fenomeno del terrorismo lo abbiamo fronteggiato e alla fine sconfitto per quasi due decenni a partire dall’inizio degli anni Settanta. Nel terrorismo brigatista i fiancheggiatori giocarono un ruolo di primo piano, che consentì a lungo alle cellule del “partito armato” di sfuggire alla caccia degli investigatori. Se ne ebbe conferma quando le BR rapirono e tennero in ostaggio per 55 giorni, nel centro di Roma, il leader della Democrazia Cristiana Aldo Moro, poi fatto ritrovare cadavere in via Caetani. La lotta contro i fiancheggiatori dei brigatisti rappresentò uno degli assi decisivi della strategia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa volta a debellare il fenomeno terroristico». L’azione repressiva di Dalla Chiesa – quella in realtà fatta di tortura e degli omicidi di via Fracchia – presa come esempio da seguire. È la lotta al terrorismo che ce lo chiede: a noi non ci resta che stringerci intorno al governo, all’Ue, alla Nato e accettare ogni «misura di sicurezza» che questa battaglia renderà necessaria. E quindi ecco il nostro prefetto Gabrielli, pronto a chiedere un aumento dei contingenti militari a Roma e ad affermare immancabilmente che «il terrorismo dell’Isis riporta agli anni di piombo». Infine Flavia Perina, un’adolescenza trascorsa nel Fronte della Gioventù e poi nell’Msi, una maturità in Allenza nazionale, poi nel Pdl, poi in Fratelli d’Italia. Infine, in Se non ora quando (…). Insomma, anche Perina non ha potuto fare a meno di dire la sua, affermando che «il terrorismo nasce in Europa e si batte come negli anni di piombo», e giù con i paragoni con le Br e le citazioni di Renato Curcio.
Alte vette di vaneggiamento sono state poi raggiunte su La7 durante la trasmissione Otto e mezzo dal giornalista (?) di Libero Davide Giacalone (vedi), ex repubblicano fedelissimo di Spadolini (fu Capo della Segreteria del Presidente del Consiglio dei ministri tra il 1981 e il 1982, con Spadolini a capo del governo) coinvolto in Tangentopoli. Affermando che in Italia abbiamo vissuto tante degenerazioni «ideologiche» e «fanatiche» di principi corretti, e parlando del problema della connivenza con il terrorismo tra i musulmani, Giacalone ha affermato che «essere comunisti è una cosa, fare i terroristi delle Brigate rosse è un’altra. Detto questo, quando è fiorente il terrorismo delle Brigate rosse si chiede ai comunisti italiani di manifestare una differenza e segnare una rottura, non lo si chiede ai democristiani». Giacalone ha poi criticato ogni interpretazione sociologica dell’arruolamento nella jihad dei musulmani europei, contro Massimo Cacciari che – seppur senza considerare il sociale un piano di lotta per l’emancipazione – invece parlava della disoccupazione e dei bassi salari nelle banlieues come fattori che favoriscono il fondamentalismo e la scelta jihadista: «Quello con cui abbiamo a che fare non è il disagio sociale, è un’ideologia denominata fondamentalismo islamico che va schiacciata. Quando abbiamo avuto il problema delle Brigate rosse non ci siamo posti il problema del disagio sociale e nelle fabbriche, c’erano dei terroristi che andavano arrestati e condannati, semmai anche ammazzati. Abbiamo fatto un insieme di queste cose e ci è andata bene. Le Brigate rosse non erano frutto del disagio delle fabbriche, ma di un’ideologia malata di gente fuori di testa, dei falliti nella vita che hanno tentato con le armi in mano di farsi una posizione». Ideologia malata (il comunismo, la rivoluzione), falliti che si vogliono fare una posizione nella società (?) da ammazzare (e se lo dice lui, che negli anni ’80 delle torture aveva una posizione di prestigio nel governo…), da schiacciare. Chapeau. Finalmente un giornalista dalle capacità interpretative della realtà molto avanzate, non c’è che dire. Un’interpretazione tutta psicologica e basata sull’invidia sociale: chissà che il nostro Giacalone non abbia letto Zizek.
La chicca, però, è quella contenuta in un’intervista dell’immancabile Repubblica allo scrittore e drammaturgo Hanif Kureishi, nato a Londra da padre pakistano (di quella borghesia nazionale pakistana così vicina ai colonizzatori britannici…) e madre inglese. Kureishi, non si capisce bene da quale pulpito, non si limita ad accomunare il jihadismo alle Brigate rosse, ma a tutta la storia del comunismo del ‘900: «I jihadisti mi ricordano le Brigate Rosse e l’ideologia dei rivoluzionari bolscevichi», ci dice. Insomma, il più importante episodio di emancipazione del proletariato, la madre di ogni conquista sociale del XX secolo, è assimilata al jihadismo, l’odierno male assoluto. A essere messo sotto accusa, sul giornale che rappresenta la voce del Partito della nazione (e, ormai, anche quella del padronato), è l’idea rivoluzionaria in sé:
L’ideologia rivoluzionaria marxista, leninista, bolscevica, era animata da una simile visione puritana. Lenin e Mao erano utopisti convinti di poter creare una società migliore, superiore all’Occidente. I loro seguaci si sentivano dei nobili idealisti, anche quando spargevano sangue con le bombe o con i mitra. L’estremismo di sinistra degli anni ’70, dalle Brigate Rosse in Italia ai tanti gruppuscoli più o meno violenti che esistevano nel resto d’Europa, Inghilterra compresa, deriva da quello stesso complesso di superiorità, da quella medesima intransigenza e ansia di purezza. Lo so bene perché tanti amici della mia gioventù, qui a Londra, erano fatti così, anche se magari non andavano in giro a sparare.
Insomma, una posizione forse ancora più reazionaria di quella espressa da Giacalone su La7. Si potrebbe dire tanto sugli attentati di Bruxelles. Magari Kureishi, facendo riferimento alla sua origine pakistana, avrebbe potuto parlare proprio del Pakistan, il paese dove è nato il qaedismo, il paese che, come affermato dal sempre ottimo Alberto Negri sul Sole 24 ore,
con l’approvazione degli Usa e i finanziamenti dei sauditi aveva sostenuto dal 1979 la guerra dei mujaheddin contro l’Unione Sovietica e causato la sua sconfitta. Un ufficiale dei servizi pakistani, sostenitore di Bin Laden, mi mostrò appena dopo l’11 settembre un pezzo del Muro di Berlino con una dedica della Cia: “È per questo che lei ha combattuto”. Nacque così negli anni ’80 un legame tra Washington e il mondo sunnita più integralista quasi indissolubile.
E invece no. Il quotidiano ufficioso del Partito della nazione e del governo approfitta degli attentati di Bruxelles per diffondere un po’ di anticomunismo: sembrerebbe strano visto che – per dire – quando l’Afghanistan era vicino all’Urss le donne non indossavano il burqa, il paese era laico e il fondamentalismo religioso non esisteva; poi agli Stati Uniti questa cosa non piaceva, il fondamentalismo religioso l’hanno finanziato e stimolato e il resto della storia è cosa nota. Una storia che – scoperchiato il vaso di Pandora – non poteva certo terminare con una stretta di mano e il riconoscimento dato nella lotta contro il comunismo. Quello che ci vuole dire Repubblica è, però, fin troppo chiaro. Del resto, in guerra, il fronte interno – e la sua unità, la sua compattezza, la sua fedeltà – non è meno importante di quello esterno. Nell’Europa del 2016 non si deve neanche prendere in considerazione l’idea di creare una società migliore di quella in cui viviamo. Non dobbiamo essere guidati da nobili ideali, da una prospettiva rivoluzionaria, da una volontà di cambiamento. Dobbiamo solo stringerci ai nostri governi e accettare ogni limitazione alla nostra libertà in nome della sicurezza collettiva. Dobbiamo accettare le loro spiegazioni banalizzanti e riduttive, la criminalizzazione dell’Islam in quanto tale (del resto, nel giorno degli attentati non è stato l’incompreso hastag #stopislam il treding topic più diffuso in tutti i paesi europei su twitter?), le spiegazioni psicologiche e psichiatriche, culturaliste, etniche e razziali (l’invidia, la frustrazione, l’arcaicità dell’Islam, la barbarità degli arabi, le pulsioni sessuali incontrollabili degli orientali e la loro sublimazione terroristica, ecc. ecc.). Dobbiamo rifiutare ogni spiegazione materiale, economica, sociale o politica. Altrimenti? Altrimenti, che uno sia islamico o marxista, che voglia imporre il califfato islamico oppure giungere alla liberazione delle classi oppresse, finirà (anzi, ci è già finito) ugualmente nel campo del nemico. Quello in cui chi ne fa parte – per dirla come Giacalone – deve essere arrestato, condannato o, perché no, ammazzato.