L’Italia alla guerra
Partiamo da un dato di realtà. Il governo Renzi si è imbarcato, con tutte le timidezze del caso, nell’impresa libica, nonostante i media cerchino in tutti i modi di farci credere il contrario. Da mesi sono i corso i preparativi militari per scendere sul terreno, oltre che bombardare, cosa già in corso, attraverso i droni. La Nato sa benissimo che il controllo del territorio libico passa attraverso forme di occupazione, di intervento diretto, e certo non può bastare a difendere gli interessi occidentali la debole e frammentata rappresentanza filo occidentale presente nel paese. La partita libica è una partita difficile, la “scatola di sabbia” della prima impresa coloniale italiana è oggi un paese strategicamente decisivo sia per il controllo del Mediterraneo che per la partita di affari su gas e petrolio, sia, inoltre, per giocare un ruolo nello Sahel africano. Grazie all’impresa neocoloniale del 2011 con cui venne dato il benservito a Gheddafi, oggi in Libia non esiste uno stato nazionale, ma una tribalizzazione del paese prevedibile e prevista sin dal 2011 (qui, qui e qui).
La timidezza del governo Renzi, con il Pd in seria difficoltà nelle aree metropolitane in vista delle prossime elezioni amministrative, è data dalla consapevolezza che la partita libica è scivolosa, potenzialmente paludosa e rischia di diventare una forca caudina difficilmente descrivibile come impresa progressiva, indolore o con il solito refrain del “ce lo chiede l’Europa”, “la Nato” o qualche altra organizzazione d’ingerenza internazionale. E’ evidente il carattere neocoloniale dell’impresa in cui si sta imbarcando il governo Renzi. La Nato e gli Usa hanno chiamato gli italiani a svolgere in questa guerra un ruolo chiave, di comando ma anche di partecipazione militare diretta, insistentemente si parla di cinquemila uomini delle forze armate nazionali impegnate per “normalizzare” la situazione, per non parlare del fondamentale ruolo logistico del paese, di fatto rampa di lancio per gli aerei, droni, marine militari e altro tipo di attività ricognitiva (cosa che di fatto sta avvenendo da mesi). Ma il pericolo dell’operazione libica, se il governo dovesse rompere gli indugi, non si annida solo sul territorio africano ma anche, e forse soprattutto, in quello che può succedere qui da noi, le conseguenze che si potrebbero produrre se altri italiani dovessero tornare dentro le bare, scoprendo di colpo la natura concreta della guerra finora videogiocata coi droni statunitensi.
La vicenda di Parigi del novembre scorso dimostra anche che la guerra ha però un suo fronte interno, che si combatte nelle retrovie dell’imperialismo, nelle nostre cinte metropolitane, senza esclusione di colpi. Non crediamo di fare facile allarmismo nel dire che la guerra porta con sé uno stato di emergenza reso permanente, imbrigliando e di fatto criminalizzando ogni forma di dissenso equiparato a diserzione dagli interessi della nazione. Il caso bolognese della contestazione al barone Panebianco, in questo senso, è una piccola spia del clima intimidatorio che il mainstream di regime intende instaurare nel paese. Che, di fatto, si va instaurando. Non bisogna, quindi, abbassare la guardia o semplicemente attendere passivamente che gli eventi della guerra si esplicitino nella forma più visibile e tragica, quando sarà anche troppo tardi. E’ per tali ragioni che è importante dare risalto alla giornata nazionale e cittadina contro la guerra di sabato, che a Roma si concentrerà sotto la sede del COI (Comando Operativo Interforze), struttura operativa che sovraintende le operazioni militari di aggressione alla Libia, e che ha sede nel cuore della metropoli, nei quartieri tra Cinecittà e Centocelle. E’ dal cuore della metropoli occidentale infatti che prenderà forma l’ennesima aggressione internazionale. E sarà nel cuore della stessa metropoli che quell’aggressione tornerà indietro sotto forma di un terrorismo che è il prodotto, e non la causa, delle politiche occidentali in Medioriente.