L’Italia liberista di Zalone
Cinematograficamente parlando ci consideriamo di bocca buona, degli spettatori praticamente onnivori capaci di gustarsi il perlage raffinato di un film d’autore tanto quanto la sostanza delle Storie con la S maiuscola raccontate dal “grande cinema”, senza però mai disdegnare il retrogusto pecoreccio del cinema di genere o di certa commedia popolare all’italiana con cui siamo cresciuti. Probabilmente, se andassimo a scavare, ci accorgeremmo che Steno ha influenzato il nostro immaginario molto più dei film di Kieślowski o di Lars Von Trier. Confessiamo però che l’ultimo blockbuster della coppia Nunziante-Zalone non siamo proprio riusciti a digerirlo. E dire che eravamo entrati in sala con le migliori intenzioni, per la simpatia che nutrivamo nei confronti del comico barese, e con la curiosità di capire cosa ci fosse dietro “il film campione d’incassi” divenuto un fenomeno di costume capace addirittura di mettere d’accordo la critica “colta”, la politica e il grande pubblico. Ora, sia ben chiaro, non staremo qui a recensire l’irrecensibile. La sceneggiatura è quel che è, la regia pure, ma non è certo questo che si chiede a Checco Zalone. Forse qualche battuta meno scontata, quello si, ma i gusti sono soggettivi, difficilmente comprimibili in canoni ben definiti, per cui pure su questo eviteremo di esprimerci. Quello che però abbiamo trovato davvero insopportabile, e su cui vale la pena spendere due parole, è invece l’humus ideologico a cui la pellicola attinge e che fa di “Quo vado?” un film oggettivamente neoliberista, prima ancora che di destra, e che ben si sposa con la filosofia del Jobs Act e di tutte le altre (contro)riforme del lavoro di questi ultimi decenni. Forse sembrerà esagerato scomodare certe categorie per analizzare un film che poggia la sua comicità sulle “pugnette” agli orsi polari e sulle contraddizioni del politically correct; eppure crediamo che certi prodotti culturali, soprattutto quelli di larghissimo consumo, siano il frutto, e al tempo stesso diano forma, ad un senso comune che non possiamo ignorare o, peggio ancora, snobbare. Nel film Checco Zalone, un impiegato dell’ufficio provinciale caccia e pesca, vede la sua comoda esistenza di impiegato pubblico sconvolta dalla riforma che abolisce le province e deve decidere se accettare la buonuscita che gli viene proposta dal funzionario del ministero, oppure se rimanere attaccato al proprio posto fisso, come invece gli suggerisce di fare l’ex senatore del PRI (Lino Banfi) che proprio per quel posto lo aveva raccomandato. Determinato a non perdere l’agognato “posto fisso” Zalone sarà così trasferito per punizione da un capo all’altro del belpaese, finche non verrà spedito in una stazione di ricerca vicino al polo nord dove conoscerà, innamorandosene, una giovane ricercatrice impegnata a salvare l’ecosistema. Questo semplice pretesto narrativo permetterà al comico di interpretare una maschera che racchiude in sé tutti, o quasi, i vizi dell’italiano medio: lo scarso senso civico, l’egoismo, il maschilismo, il mammismo, il provincialismo, l’esterofilia, ecc. ecc. Fin qui nulla di nuovo sotto al sole, la commedia si è sempre nutrita di stereotipi, estremizzandoli e trasformandoli in tic sociali. E non c’è nulla di nuovo nemmeno (ahinoi) nella descrizione altrettanto macchiettistica del lavoratore pubblico che, tanto per cambiare, viene descritto come assenteista, nullafacente, corrotto, inutile, ecc. Ciò che invece colpisce è come a più riprese nel corso del film alcune conquiste del mondo del lavoro vengano raccontate tra lazzi e risa come dei privilegi, come il retaggio di un Italia anacronistica che infatti viene contrapposta alla “modernità” della giovane ricercatrice impegnata a far rinsavire Zalone dalla fissazione per i “lacci e lacciuoli” del posto fisso. La malattia retribuita? Privilegi. Le ferie pagate? Privilegi. La tredicesima? Privilegi. La pensione? Privilegi Gli assegni familiari? Privilegi. E quando alla fine Zalone firma le dimissioni tutti tirano un sospiro di sollievo provando un senso di liberazione. Confessiamo che al termine della proiezione abbiamo sbirciato tra i titoli di coda per capire se tra gli sceneggiatori ci fossero pure Alesina e Giavazzi. Scherzi a parte, è ovvio che non ci sia stata alcuna volontarietà in questa operazione. Più semplicemente gli autori hanno assorbito come spugne quel senso comune di cui parlavamo sopra, quello per cui vale l’equazione pubblico=spreco e diritti=privilegi, e lo hanno restituito in forma distillata sotto forma di un film che non per caso ha incontrato il favore del grande pubblico. E qui sta l’altro elemento su cui occorrerebbe riflettere. Il film piace anche perchè parla alla pancia di un Paese che quei diritti non li ha più, o non ne ha mai goduto, e che, invece di percepirli come un orizzonte da conquistare anche per sè, preferisce vederli togliere a chi ce l’ha. L’ennesimo sintomo di una sconfitta culturale profondissima con cui siamo chiamati a fare i conti se vogliamo, prima o poi, ambire ad essere maggioritari.