Lo specchietto per le allodole dell’articolo 18
La discussione intorno al cosiddetto “jobs act” rischia di essere monopolizzata da una diatriba assolutamente fuorviante, quella cioè sulla presunta conservazione o abolizione dell’articolo 18. Non è quello il centro del discorso, anzi paradossalmente è l’aspetto meno decisivo della riforma proposta. Intendiamoci, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non solo è un perno centrale dei diritti dei lavoratori sul posto di lavoro perché protegge effettivamente i lavoratori dai licenziamenti ingiustificati, ma anche perché li protegge simbolicamente. Senza quel simbolo, vero e proprio argine ideale allo strapotere capitalista anche nei rapporti insiti nella formalità contrattuale, la deriva sarebbe inevitabile. Per intenderci, basta fare un esempio: in Spagna l’abolizione di un vincolo simile all’articolo 18 ha visto non solo l’aumento indiscriminato dei licenziamenti senza giustificato motivo, ma il corrispettivo indennizzo economico al lavoratore licenziato si è mano a mano ristretto fino a diventare una ridicola liquidazione di poche mensilità, anche solo due. Insomma, l’argine dell’articolo 18 permette anche – o forse soprattutto – il mantenimento di un alto eventuale indennizzo economico per cui potrebbe optare il lavoratore licenziato. L’azienda, cercando di impedire ad ogni costo il reinserimento del lavoratore, con l’articolo 18 è portata a pagare tanto l’eventuale licenziamento. Senza articolo 18, questo rapporto di forza cesserebbe, rendendo ininfluente la cifra da versare al lavoratore licenziato. La sostituzione del reintegro con l’indennizzo è quindi una bufala: già è così nei fatti, e senza articolo 18 non lo sarà più, non ci sarà alcun indennizzo ma solo una mancia senza dignità.
Nonostante questa e molte altre argomentazioni (ad esempio qui), la discussione ci sembra viziata da un equivoco di fondo, e le attuali parti in campo, gli sterili e preconfezionati battibecchi tra presunte “sinistre” liberiste e ancor più presunte “sinistre” socialdemocratiche, favoriscono questa interpretazione. Pur rifiutando qualsiasi ipotesi complottista, facciamo davvero fatica a non cogliere una sorta di intenzione dell’apparato mediatico-politico a concentrarsi esclusivamente sul feticcio *articolo18*, lasciando in ombra, o addirittura promuovendo, tutto il resto della riforma.
Anzitutto, tale riforma poggia su una retorica ideale assolutamente fallace, quella per cui per allargare i diritti dei precari, nonché risolvere la loro perenne disoccupazione, bisognerebbe restringere i diritti dei lavoratori cosiddetti garantiti. Anzi, sembrerebbe essere proprio questa massa di “garantiti” la causa principale delle condizioni di vita dei milioni di precari e disoccupati presenti nel nostro paese, nonché nel resto d’Europa. L’associazione mentale-ideologica tra *sindacati* rappresentanti dei “garantiti” e *governoRenzi* protettore dei precari è presto fatta, costruendo quel meccanismo ideologico per cui sarebbero stati i sindacati i responsabili dell’allargamento universale del precariato lavorativo. Siamo evidentemente all’assurdo. Per quanto non saremo certo noi a difendere l’operato di sindacati, CGIL in testa, che hanno da tempo immemore abbandonato ogni ipotesi di conflittualità operaia e dunque di difesa attiva dei diritti dei lavoratori nel posto di lavoro, l’esplosione del precariato è stata determinata in questi anni esattamente da quelle politiche economiche liberiste portate avanti dal riformismo liberale che oggi governa il paese. Pacchetto Treu e riforma Biagi non sono certo opera del sindacato, ma di quella visione unica presente in Parlamento che sulle riforme del lavoro viaggia alla stessa velocità e nella stessa direzione.
Detto questo, però, è opportuno rilevare le caratteristiche salienti di questa – ennesima – riforma del mercato del lavoro. Caratteristiche decisive ed epocali, su cui giustamente nessuno si sofferma se non per apprezzarle o considerarle necessarie e improrogabili.
1) La riforma del mercato del lavoro istituisce definitivamente i cosiddetti “mini jobs”, sia prevedendoli direttamente sia espandendo la potenziale utilizzazione del contratto d’apprendistato per i nuovi entrati nel mondo del lavoro. Questo strumento, che è alla base della competitività tedesca (cioè del suo basso costo del lavoro), è il cuore stesso della riforma. Attraverso i mini jobs sarà possibile per l’azienda di turno modellare efficacemente la produzione al “just in time”, assumendo lavoratori sottopagati nei picchi di produttività con la garanzia di licenziarli appena la produzione rientra nella normalità. Il cuore stesso della competitività tedesca, come dicevamo: da una parte, la grande massa dei non garantiti (sul serio questa volta) su cui si fonda l’estrema produttività della propria economia; dall’altra un ristretto nucleo di operai sindacalizzati, con stipendi alti e super-contrattualizzati, rappresentanti da sindacati inseriti nell’organizzazione aziendale di cui godono profitti e rendite.
2) Il modello tedesco, su cui è imperniata tutta la riforma Renzi del lavoro, poggia su un sistema economico orientato esclusivamente all’export. Questo fatto, che potrebbe apparire un mero dato tecnico, è invece centrale per capire come si va riorganizzando la produzione italiana. Un mercato costruito sulle esportazioni non prevede lo stimolo della domanda interna, e dunque non ha necessità di livelli salariali capaci di rendere possibile l’assorbimento della produzione nazionale da parte dei lavoratori che la producono materialmente. Il “modello-Germania” è infatti basato sulla moderazione salariale, cioè su salari inferiori alla media della produttività. Questo è possibile perché non è importante per il sistema economico tedesco che le merci prodotte siano consumate in Germania. Le merci sono destinate all’estero, e questo rende ininfluente pagare salari tali da consentire al sistema economico di rigenerare se stesso. Dunque, se dovesse passare, la riforma Renzi certificherebbe la riduzione salariale complessiva dei lavoratori dipendenti italiani, contraendo la domanda interna e generando contraddizioni a lungo termine del modello di sviluppo difficilmente affrontabili. Infatti questo gioco funziona se, all’interno della medesima area monetaria, solo uno è il paese competitivo nel determinato settore di riferimento, ad esempio (a caso) la manifattura. Se diventano due o più, non potendo gli altri svalutare moneta per rendere più competitive le proprie merci, questi andranno incontro a fenomeni di de-industrializzazione, come infatti sta avvenendo da anni nel nostro paese. L’area monetaria dell’Unione Europea sta andando incontro ad una specializzazione produttiva tale per cui l’area dedita all’industria manifatturiera sarà la Germania; gli altri paesi dovranno specializzarsi in altri campi economici/produttivi. Sembrerebbe una divisione neutra, ma non è così: la capacità industriale consente indipendenza e autonomia politica. Una capacità economica di altro tipo, ad esempio nel settore dei servizi, del turismo, della logistica, porta col tempo alla perdita di autonomia e di indipendenza nei confronti del mercato. Per la Germania sarà sempre possibile “fare da sé”, mentre gli altri paesi saranno dipendenti dai flussi economici esteri, dalle “bizze” dei mercati, ecc.
3) Lo strumento cardine per favorire il nuovo modello produttivo che dovrebbe partorire tale riforma è l’abolizione della contrattazione nazionale a favore di quella territoriale o aziendale. I motivi sono facilmente intuibili: moltiplicando all’infinito il numero di contratti, decentrando capillarmente ogni decisione e ogni eventuale rapporto di forza strappato con la lotta, i lavoratori perdono la propria capacità di influenzare il sistema delle relazioni industriali a livello generale. Ogni lavoratore sarà solo di fronte all’azienda, i sindacati non potranno più contrattare a livello aziendale ciò che riuscivano a strappare a livello nazionale. Mentre la contrattazione a livello nazionale garantiva uguali diritti a tutti i lavoratori interessati, eliminando disparità territoriali o contingenti legati alla situazione di questa o quella azienda, questo o quel padrone, con la contrattazione aziendale non potrà esistere alcun passo in avanti generale. Nessuna vertenza sarà generalizzabile, e le vittorie o le sconfitte saranno esclusive dell’azienda in cui avvengono, impedendo sul nascere avanzamenti sindacali validi erga omnes.
Queste tre delle caratteristiche centrali della promessa riforma sul lavoro. Accettate da tutti perché, sull’altro piatto della bilancia, verrebbero previste tutta una serie di garanzie economiche per chi perde il lavoro o vive periodi di disoccupazione, insomma perchè si allargherebbe l’intervento statale nel non-lavoro. Un patto diabolico insomma, che allinea il mercato del lavoro italiano a quello degli altri paesi, visti come riferimento per normali relazioni lavorative fondate sul superamento del rapporto capitale-lavoro in favore della cogestione dei profitti tra azienda e lavoratore. Una riforma che istituisce per legge una divisione dei lavoratori, quelli di serie a che possono accedere al contratto “a tutele crescenti” (gigantesca balla reazionaria) e l’enorme serie b di chi consentirà nei fatti la competitività delle aziende, cioè la mano d’opera de-sindacalizzata, sottopagata e senza contratto dell’esercito di “apprendisti”, stagisti, legati a forme legali di mini jobs, eccetera. Il modello Germania senza la forza produttiva della Germania. Un vero incubo.