L’orologio rotto due volte al giorno ci racconta qualcosa di vero
Purtroppo ogni tanto ci troviamo ad essere d’accordo con Giuliano Ferrara. Forse per il suo sguardo materialista delle vicende politiche, o per la sua impostazione comunista che emerge anche da strenuo difensore del berlusconismo – oggi renzismo – eppure riesce ad individuare il problema meglio di tanti supposti progressisti. In particolare, ci riferiamo al suo discorso sulla corruzione. In sostanza, Ferrara dice che non è questo il problema del paese, chissenefrega della corruzione, è un problema tecnico che andrebbe affrontato giuridicamente, non politicamente. Il problema è il sistema che non funziona, non il livello di corruzione dei suoi singoli rappresentanti. Certo, il suo punto di vista è di chi vorrebbe salvare ideologicamente il berlusconismo dal suo necessario corollario d’illegalità congenita, ma dopo vent’anni abbondanti di egemonia legalitaria, dopo aver mandato in soffitta la questione morale e la presunta “differenza antropologica”, è arrivato il momento di dire che si, della corruzione non ce ne frega davvero niente, che nel tempo ha assunto la funzione del classico specchietto per le allodole fuorviante e pacificante. Non ci interessa un discorso politico che ruoti unicamente attorno all’onestà o meno dei rappresentanti politici, così come non ci interessa il feticcio di una legalità che si traduce unicamente nel rispetto di un presunto codice deontologico, rispettato il quale ogni discorso politico passa in secondo piano. Il grimaldello principale attraverso cui è stata fatta passare l’egemonia culturale del tecnicismo, del superamento dei concetti politici di sinistra e di destra, della politica delle “buone soluzioni”, non più impelagata in “ideologismi novecenteschi”, in questi anni è stato proprio il concetto di corruzione. Se un politico non è un corrotto è un buon politico, ci dice il mainstream, questa l’unica qualità necessaria a rappresentare la popolazione in parlamento. Riportiamo un esempio citato proprio da Ferrara, che dice più o meno così: preferisco avere politici corrotti in parlamento che finiscono la Salerno Reggio Calabria in due anni, piuttosto che onestissimi rappresentanti che non risolvono nulla dei problemi del paese.
Il discorso sulla corruzione in questi anni ha tirato la volata a una serie di forze politiche tecnicamente di destra (M5S e Lega Nord in primo luogo), che però potevano (auto)rappresentarsi come “opposizione al sistema” unicamente perché produttrici di un discorso radicale contro la corruzione dei rappresentanti politici nelle istituzioni. Non importa che queste forze siano o meno effettivamente conseguenti con il loro messaggio legalitarista (e abbiamo visto come, almeno nel caso della Lega, questo non sia vero), quanto la percezione che producono, quella di un sistema in crisi di corruzione, di una prima repubblica fallita proprio per le continue frodi, a cui contrapporre un messaggio di rifiuto per quel modello gestionale, messaggio sovente subappaltato al ruolo politico della magistratura quale organo tecnico “pulito” in grado di mondare i difetti del “sistema”. Ad essere dirimenti non sono più le posizioni politiche, ma l’onestà dei rappresentanti, il feticcio appunto di un comportamento umano più o meno rispettoso delle regole civili. Questo discorso, in sé abbastanza superficiale, è divenuto col tempo l’unico metro di giudizio della classe politica, identificata come “casta” proprio perché accomunata ad un uso dei soldi pubblici spesso illegale, o anche solo moralmente inopportuno anche quando legalmente possibile. Una dialettica politica insomma che ha trasformato la moralità in questione di fondo, tralasciando il merito per concentrarsi su un metodo coincidente, appunto, con la moralità, o eticità, dei propri comportamenti.
Sembrerebbe appunto un discorso ovvio ma così non è. Se lo fosse oggi non assisteremmo alla profonda distorsione del dibattito politico, dove alle categorie di sinistra e destra sono state sostituite quelle di onesto e ladro, pulito e corrotto. Identificando, nel campo della sinistra, il radicalismo all’estrema onestà, per cui tanto più rivoluzionario è un politico quanto più rifiuti stipendi e prebende assegnategli dalle istituzioni. Mattarella che va in aereo di linea in Sicilia compie un gesto “di sinistra”; il sindaco di Messina coi sandali è espressione di una coerenza progressista; la devoluzione dello stipendio da parlamentare o da assessore a qualche causa umanitaria l’unico metro con cui giudicare la capacità del politico di turno di rappresentare l’umore degli elettori. Niente di più falso, liberiamoci da questa retorica d’accatto, da questo pauperismo (molto) piccolo borghese, da questo moralismo da quattro soldi spacciato per “sana politica”. E liberiamoci pure del feticcio della corruzione, torniamo a considerarla semplicemente un reato, non il reato. La politica che fa del moralismo la sua chiave d’interpretazione produce mostri, e il sistema politico italiano uscito fuori da Tangentopoli ne è la dimostrazione più evidente.