L’uomo e la natura
Ti dirò una modesta verità.
Se l’uomo, microcosmo di follia,
usa pensarsi come un tutto – io sono
parte di quella parte che in principio era tutto,
della tenebra che partorì la luce,
la luce superba che adesso a madre Notte
contende lo spazio e il rango antico.
Ma senza mai riuscirvi; per quanto si cimenti
resta incollata ai corpi e prigioniera;
dai corpi emana, rende belli i corpi
e ogni corpo ne ostacola il cammino.
Spero perciò che non ci vorrà molto
e con i corpi perirà anche lei.
[JOHANN WOLFGANG GOETHE, FAUST]
Tra le molte cose positive del virus, una sta lavorando sottotraccia: la crisi radicale dell’idealismo di fronte agli eventi della natura. Quell’idealismo che distingue, in forme varie e contraddittorie, tutto il pensiero medio della sinistra antagonista, si è arenato di fronte agli sconvolgimenti che operano su di un piano della realtà materiale che l’uomo, nonostante i sofismi della ragione, non riesce a governare e non potrà mai farlo del tutto. Ci hanno provato, i vari Agamben e Fusaro, a ricondurre il tutto alle diverse articolazioni della teoria del complotto: il primo replicando la supercazzola biopolitico-governamentale attraverso cui il capitale internazionale starebbe disciplinando popolazioni riottose (fa ridere, ce ne rendiamo conto: eppure è questo che si raccontano nei dipartimenti universitari dell’Occidente “impegnato”); il secondo, sulla scorta di Giulietto Chiesa e delle scie chimiche, affermando esplicitamente che il virus è uno stratagemma americano per colpire l’economia cinese. La straordinaria distanza tra la realtà e la rappresentazione proposta da questi soloni della polemica (con tutte le variabili intermedie, sia chiaro), ha immediatamente derubricato questo pensiero, fino a ieri però considerato dignitoso e “radicale”, a sciocchezzaio a-morale. Non è mai troppo tardi, potremmo dire.
E invece il virus ci sta raccontando molto di noi, del nostro progresso e del nostro rapporto con la natura, cioè con la materia. Che ci determina, come vediamo in questo caso. Per quanto sia giusta la battaglia politica sulle qualità del sistema sanitario, contro la sanità privata, sulle scelte politiche discutibili del governo, sulle migliori strategie di contenimento, sulla lotta alla retorica della “unità nazionale” (cose su cui pure torneremo nei prossimi giorni), rimane un dato principale: l’uomo è governato da forze naturali che può parzialmente subordinare alle proprie volontà, ma mai del tutto. Il virus è un esempio, con cui dovremo sempre più convivere in futuro. Non con “questo” virus in particolare, ma con l’azione della natura che sempre più entrerà in conflitto con l’opera di assoggettamento di questa da parte dell’uomo. L’uomo, come specie, “non muore più”: la quantità di popolazione che arriva più o meno artificialmente alle soglie dei novant’anni e oltre è eccessiva per gli equilibri della natura; l’uomo – ancora – vive sempre più concentrato in metropoli, riducendo quello spazio vitale necessario a un corretto utilizzo delle risorse, che prevede anche una dispersione territoriale sostenibile; attraverso l’azione inquinante delle sue attività produttive e agricole, l’uomo sta riducendo, da un lato, la biodiversità animale; dall’altro, la monocoltura intensiva sterilizza progressivamente territori naturali e capacità di adattamento delle specie vegetali. Queste e altre ragioni determineranno quell’azione correttiva-regolativa della natura a cui sarà sottoposto anche l’uomo in quanto espressione di questa. Può esserci un’opera di mediazione: in tal senso vanno sostenute e incrementate le cure sanitarie. Eppure queste non potranno che essere, sempre più, preventive. Una logica – questa della prevenzione – impossibile da sostenere in connessione con il processo di riduzione-privatizzazione del welfare, in generale, e della sanità, in particolare. La logica primaria, cioè economica, che muove la sanità privata è quella della cura della malattia, che determina i guadagni; quella della sanità pubblica è, o dovrebbe essere, quella della prevenzione, che riduce i costi. Due logiche contrapposte, l’una insostenibile e l’altra risolutiva. Non è tanto – o non è solo – un discorso di “sanità per ricchi” contrapposta alla “sanità per poveri”: c’è anche questo, ma sarà sempre più secondario. Il dato dirimente è che il concetto stesso di cura sarà sempre più insostenibile per l’uomo del futuro, nonostante i progressi della scienza. La natura, come detto, provvederà da sé a regolare l’incidenza di una specie sulle altre. Il virus è uno strumento. Uno strumento che verrà sconfitto, per adesso. Ma che ritornerà, con più sagacia, con maggiore “produttività”.
Il punto di vista è l’equilibrio, non l’uomo. Nella lotta tra la gazzella e il leone, non è possibile comprendere le ragioni della natura se lo chiediamo alla vittima, cioè alla gazzella. In questo caso la gazzella è l’uomo, che però ha i mezzi sociali per prendere coscienza di questo equilibrio e impossessarsene (mai del tutto però). È possibile farlo senza cambiare i rapporti di produzione? La risposta non è semplice: anche nel più perfetto socialismo l’uomo rimarrà governato dalla natura e dalle sue forze. Anche nel più pieno socialismo avremo virus e uragani e terremoti. Non per questo siamo inermi di fronte alla realtà esterna. L’idea di socialismo è prendere atto di questa realtà esterna all’uomo, che esiste a prescindere da esso, costruendo relazioni sociali che sappiano interagire con questa dimensione materiale. L’unico strumento per controllare tutto ciò è la prevenzione: ambientale, sanitaria, produttiva. In tal senso, potremmo concludere che la soluzione è, sì, il socialismo, inteso come organismo sociale che risolve la contraddizione tra rapporti produttivi ed ecosistema. Un socialismo che però farà i conti con la morte e l’altro da sé, questioni che in Occidente sono state sterilizzate e, proprio per questo, ritornano in forma più traumatica del dovuto.