L’uso politico della storia e il revisionismo dal volto umano: in attesa dell’ennesima giornata del ricordo a senso unico
Da diversi anni le campagne politiche volte a rileggere alcuni fenomeni della storia del Novecento hanno perso di veemenza. Da una fase di attacco a tutto campo della lettura “resistenziale” di determinati episodi della storia nazionale, si è passati ad una più efficace guerra di logoramento ideologico. Siamo passati dalle sbraitate storaciane contro i testi scolastici filo-comunisti al tentativo culturale di Romanzo Criminale o di Benigni nell’apologia del sano nazionalismo o dell’esaltazione della violenza criminale opposta a quella politica. Insomma, se la guerra ideologica contro ogni ipotesi di cambiamento politico reale continua, cambiano gli strumenti utilizzati, adeguati alle diverse fasi politiche e ai differenti contesti culturali di volta in volta presenti. C’è però una data che permane nel paesaggio istituzionale italiano figlia dello scorso decennio, quello in cui la destra aveva necessità dello sdoganamento politico e il sistema paese, nel suo complesso, bisogno di nuova linfa patriottica: il 10 febbraio. Quest’anno cade peraltro il decennale, sempre meno festeggiato a dire il vero, del “giorno del ricordo”, data in cui l’Italia si scoprì vittima del vero Olocausto del XX secolo, le foibe. Per anni ci siamo preoccupati di dare una lettura differente di tale data, concessa ad Alleanza Nazionale quale momento in cui celebrare l’italianità e i sacri valori del nazionalismo, libera finalmente dall’accusa di fascismo che si portavano appresso manifestazioni di questo tipo. Il contesto culturale creato ad arte ha permesso a un intero patrimonio di paccottiglia nazionalista di essere finalmente sdoganato, slegato dai lacci neofascisti in cui veniva ricondotto e finalmente libero di poter circolare tranquillamente nel dibattito politico ufficiale. L”operazione foibe” promossa da AN e avallata da tutto l’arco parlamentare ha costituito, e costituisce ancora oggi, l’episodio di revisionismo storico più macroscopico di questi decenni, quello più raffazzonato e più politicamente orientato. In altre parole, lo strumento attraverso il quale non solo la destra, ma tutto il nuovo corso politico rappresentato in parlamento, ha chiuso i conti politici e culturali con la Costituzione nata dalla Resistenza. Se ogni legge rimanda a una sua fonte superiore dalla quale trae legittimità, ciò vale anche per la legge principale italiana, e cioè la Costituzione, che infatti deriva la sua legittimità dal contesto storico in cui venne prodotta. La Resistenza, e con essa non solo i fatti storici che la produssero ma anche i valori politici che la ispirarono, rappresenta dunque il contesto di legittimità dalla quale muove la Costituzione. L’istituzionalizzazione del giorno del ricordo ci sembra perciò il momento clou dello svuotamento dei significati sostanziali che danno vita alla Costituzione, il momento in cui davvero ha chiusura la cosiddetta “Prima Repubblica” in favore della “seconda” a-fascista e anticomunista.
La giornata del ricordo capita in un contesto culturale profondamente segnato da questo utilizzo politico della storia. Fenomeno insito in ogni lettura storica, che infatti non è mai neutrale, ma sempre politicamente orientata. Il problema è che questo uso politico oggi è dominato dalla visione liberale-liberista dei rapporti sociali e dello sviluppo storico. A tale processo revisionista, la sinistra non ha saputo contrapporre una sua visione del mondo. Da una parte, l’ex sinistra comunista ufficiale, divenuta infine PD, ha sostanzialmente accettato attivamente la visione del mondo liberista. Dall’altra, la sinistra antagonista, o di classe, ha perso la bussola in un mare di visioni deboli, incapaci di avere la forza di esercitare un’egemonia culturale sulla società. La subalternità culturale è infatti uno dei tratti caratteristici delle organizzazioni di classe di questi decenni, anni in cui alla violenza della visione unica del capitale non si è saputo rispondere con una visione altrettanto unica sulle leggi fondamentale dello sviluppo economico e dei rapporti sociali presenti in ogni società.
Questa lunga premessa è doverosa per ricordare ancora una volta la pericolosità della giornata istituzionale del 10 febbraio, giorno in cui il nazionalismo italiano di ogni colore si ritrova sotto la bandiera dell’unità politica contro l”espansionismo slavo”, la “pulizia etnica”, l”odio razziale”, la “rappresaglia politica”. Come infatti ben argomentava Napolitano, vero tutore internazionale del governo dell’unità politica fra centrodestra e centrosinistra, le foibe costituirono
Un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica. [Napolitano, 10 febbraio 2007, Roma]
E’ ben evidente che se a pensarla così è l’esponente politico più popolare della “sinistra” istituzionale, la figura che più di ogni altra viene individuata come esempio o modello da seguire, nonché la più difesa a livello politico e mediatico, inattaccabile per definizione, qualcosa di marcio si è prodotto nella cultura politica del paese Italia. Utile ricordare, brevemente perché riproposto più volte anche su questo blog, le fantasie politiche espresse da questo breve estratto, che sintetizza bene l’opinione condivisa attorno al tema delle foibe e dell’esodo istriano seguito al Trattato di pace. Il “moto di odio e di furia sanguinaria” dovrebbe riferirsi alle 798 vittime ufficialmente ritrovate nelle cosiddette foibe, cioè le cavità carsiche presenti in territorio giuliano e istriano, fra il 1943 e il 1945. Infatti, nonostante i numeri sparati a caso di volta in volta dai vari esponenti politici, dall’estrema destra alla sinistra più ossequiosa, gli unici corpi ritrovati furono quelli che il maresciallo dei Vigili del Fuoco Harzarich ripescò nel biennio ’43-’45 (ribadiamo: fonte ufficiale fascista, quindi interessata ad amplificare l’accaduto). Poi più nulla. A ben vedere, in un contesto territoriale e temporale in cui morirono 50 milioni di persone, parlare di “moto di odio e di furia sanguinaria” sfiora il controsenso.
L’accenno al “disegno annessionistico slavo”, poi, recupera totalmente, senza alcun accento critico, l’impostazione politica irredentista rispetto alle terre istriane, che nella visione nazionalista appartenevano “naturalmente” allo Stato italiano e che solo per uno scherzo del destino, ordito dalle perfide potenze alleate e messo in atto dal comunismo internazionale personificato da Tito, sono state sottomesse alla Jugoslavia. Anche in questo caso, un ripasso di qualche manuale di liceo basterebbe a confutare una tale visione talmente raffazzonata e anti-storica dal lasciare il dubbio sulle reali capacità cognitive del presidente della Repubblica. L’Istria infatti apparteneva da secoli all’Impero austroungarico, sia inteso come possedimento veneziano per conto degli Asburgo, sia direttamente come proprietà dell’Impero centrale. Come recita uno qualsiasi dei testi di liceo, o anche basandosi solo su Wikipedia, infatti (e per rimanere a secoli recenti), “attraverso il trattato di Campoformio l’Istria assieme a tutto il territorio della Repubblica di Venezia [di dominazione francese] fu ceduta agli Asburgo d’Austria”. Nel successivo corso del secolo, e fino alla prima guerra mondiale, il territorio rimase sotto dominazione asburgica. Etnicamente, nel 1910, su 404.309 abitanti, 168.116 erano di origine serbo-croata; 55.356 sloveni; 13.279 tedeschi; 147.416 italiani. La penisola era dunque un territorio eterogeneo e multietnico, a maggioranza slava, e sotto controllo asburgico. Nulla legava queste terre all’Italia in quanto entità statale. Piuttosto, un contesto in cui erano presenti varie nazionalità e un intreccio di culture, fra cui quella veneta.
Dove si fonda dunque la presunta italianità di quelle terre, il tentativo di ritornare ad un originario stato di natura italiano delle regioni istriane e dalmate? Alla spartizione coloniale successiva ai trattati di pace del primo dopoguerra, in particolare il Trattato di Saint Germain en Laye del 1919. Le potenze alleate infatti promisero all’Italia la concessione dei territori austroungarici se fosse intervenuta in guerra contro gli imperi centrali. Cosa che infatti fece, smentendo l’alleanza storica con la Germania e l’Austria del 1881 e muovendo guerra contro gli ex-alleati. Il frutto della vittoria furono appunto (fra molte altre cose) le terre istriane, che divennero, per la prima volta, italiane a tutti gli effetti. Il senso dell’italianizzazione forzata di quelle terre fu subito impresso dallo Stato liberale, ma divenne compiuto due anni dopo, con l’ascesa del fascismo e la pulizia etnica, culturale e politica di confine. Già nel 1920, Mussolini dichiarava che
di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica dello zuccherino, ma quella del bastone.[…]I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani. [discorso tenuto a Pola, 24 settembre 1920].
L’Istria fu dunque italiana dal 1920 al 1945, quando la Jugoslavia, ormai formata quale Stato nazionale e liberatasi dal nazifascismo, si riappropriò di una parte del territorio istriano, andando alla resa dei conti politica con le classi dirigenti italiane che procederono alla “bonifica etnica di confine”. La liberazione infatti non coincise, come vorrebbe la fiaba liberale, con un moto pacifico d’intenti in cui le opinioni dei giusti sconfissero quelle degli autoritari. A la guerre comme a la guerre, la Resistenza jugoslava fece la propria rappresaglia politica contro tutti quegli italiani che ebbero direttamente a che fare con la repressione del popolo slavo. Rappresaglia cruenta, forse poco scientifica, ma determinata da un contesto storico definito, e che infatti le varie anime del nazionalismo italiano ben si guardano dal raccontare.
Il disegno annessionistico slavo altro non fu che quel processo di liberazione politica antifascista che contraddistinse la Resistenza jugoslava, una delle pochissime che si liberò effettivamente da sola e senza aiuti alleati dal controllo italo-tedesco. Processo di liberazione che non fu nazionale, ma a cui partecipò attivamente grande parte della Resistenza friulana e più in generale italiana. Partigiani italiani combatterono infatti sul fronte jugoslavo contro il nazifascismo, e molti combatterono con i fucili rivolti contro gli eserciti italiano e tedesco e insieme alle truppe jugoslave. Molte di quelle ottocento persone che finirono effettivamente nelle foibe non solo erano militari italiani caduti nelle battaglie contro la Resistenza jugoslava, ma erano appunto “già caduti”. Le foibe costituirono cioè, per una parte di queste persone, delle fosse comuni. Metodi sbrigativi, ma che niente hanno a che fare col concetto di pulizia etnica. Anche perché, molti di quegli italiani vennero uccisi da altri italiani. Ed è esattamente questo fatto che va rimosso nella lettura della resistenza europea contro il nazifascismo.
La “pulizia etnica” ricordata da Napolitano, dunque, sarebbe da riferirsi sicuramente alla politica italiana nei venticinque anni che la legarono all’Istria. Quella jugoslava dovrebbe essere definita “pulizia politica” di tutti quegli italiani che collaborarono col regime nel processo di annessione forzata della cultura slava a quella italiana. Cosa diversa è la parte riferita all’esodo, altro fatto che nel corso del tempo ha assunto contorni leggendari, e che fu determinato dal passaggio allo Stato slavo dei territori istriani, a cui seguì un referendum che stabiliva la libera scelta della cittadinanza da mantenere. L’opzione lasciava libere le popolazioni di determinare la propria appartenenza statuale: chi avesse scelto di mantenere la cittadinanza italiana avrebbe dovuto trasferirsi in Italia. Chi optò per quella jugoslava, sarebbe rimasto in Istria. Così nei fatti andò, e tutti coloro che decisero di mantenere la propria “italianità” furono quindi invitati a lasciare lo stato jugoslavo. Esattamente come impose la politica fascista alle popolazioni slave presenti in territorio italiano. Nel 1942 Mussolini ebbe infatti a dichiarare che
Sono convinto che al “terrore” dei partigiani si deve rispondere con il ferro e il fuoco[…]Non vi preoccupate del disagio economico della popolazione. Lo hanno voluto![…]Non sarei alieno dal trasferimento di masse di popolazione.
Anche qui, dei passaggi storici definiti e razionali, forse bruschi ma chiaramente determinati dagli accordi internazionali ai quali l’Italia aderì, peraltro da paese sconfitto, in questi anni di revisionismo storico sono stati definiti con termini e accenti degni della descrizione di ben altri tragici eventi.
Questo breve, sintetico e non esauriente excursus storico ci permett