Ma poi, è davvero un reddito di cittadinanza?
Nel tentativo quasi disperato di recuperare almeno in parte il centro della scena politica e di conteneree in questo modo la visibilità mediatica di Salvini, Luigi Di Maio sta cercando di rimettere in agenda i temi più cari ai cinque stelle. Tra questi su tutti, il Reddito di Cittadinanza, un misura di contrasto alla povertà che nelle intenzioni del leader pentastellato dovrebbe iniziare a prendere forma già da quest’anno. Intervenendo al congresso della Uil il ministro del lavoro ha provato a spiegare meglio i contorni della sua proposta: un assegno di 780 euro (per i single) che può salire fino a 2340 euro (per le famiglie molto numerose) destinato ai circa 9 milioni di cittadini che versano in condizioni di povertà assoluta e relativa, un reddito che sarebbe però subordinato allo svolgimento di 32 ore mensili di lavori “socialmente utili” per il comune di residenza e condizionato dalla disponibilità da parte del beneficiario ad accettare i lavori offerti dai Centri per l’Impiego (con un massimo di 3 rifiuti in 2 anni).
Per quanto si resti ancora nel campo delle ipotesi queste puntualizzazioni ci permettono di chiarire meglio la natura del provvedimento. Innanzitutto possiamo tranquillamente affermare che, nel caso dovesse davvero prendere forma, quello proposto da Di Maio non sarebbe un “reddito di cittadinanza”. La misura non presenta infatti alcuna caratteristica di universalità, poiché sarebbe destinata ad una platea ben delineata e, per quanto vasta, limitata di “cittadini” (disoccupati, inoccupati, working poor, ecc) e non presenta nemmeno prerogative di incondizionalità. Non ce ne vogliano i compagni redditisti, ma, al di là delle storture e dei suoi limiti intrinseci, messa così l’idea diventa quantomeno “fattibile”.
Un sussidio anti povertà da socialdemocrazia forte che, come ammoniva l’Osservatorio Conti Pubblici diretto da Cottarelli, risulterebbe perfino più “generosa” di quanto viene fatto in Francia (dove il “revenu de solidarité active” è di 530 euro) o in Germania (dove il sussidio ammonta a circa 400 euro) e con collegamenti meno stringenti (rispetto agli altri 22 paesi in cui una misura del genere è prevista) tra il beneficio e la partecipazione a programmi di politiche attive.
C’è però un “ma” grosso quanto una casa, anzi, grosso quanto l’Unione Europea. La commissaria europea al welfare, Marianne Thyssen, ha infatti risposto picche a stretto giro di posta a Di Maio, il quale aveva dichiarato di voler utilizzare i fondi europei per finanziare il reddito di cittadinanza. Non si può fare. Il Fse può essere utilizzato come fonte complementare per sostenere misure volte a rafforzare i servizi pubblici per l’impiego, la formazione, per combattere la disoccupazione giovanile. Ma non per sostituire la spesa nazionale, né per misure ordinarie o solo per politiche “passive”. (Il Sole 24 ore). Non solo. I fondi per il 2014-2020 sono stati ormai già assegnati e, mentre non si prevedono risorse aggiuntive, le regioni beneficiarie sembrano essere scese già sul piede di guerra perché non vogliono che quei fondi vengano in alcun modo distratti. Il tutto mentre, quasi in contemporanea, l’Ecofin, per bocca di Dombrovskis, confermava per l’Italia le raccomandazioni predisposte a maggio scorso: riduzione del deficit dello 0,6% del Pil, che tradotto in euro fanno qualcosa come 10 miliardi.
Torna dunque prepotentemente il problema di come trovare le coperture per una misura il cui costo oscilla dai 17 miliardi di euro annui calcolati dagli stessi cinque stelle ai 38 delle stime dell’INPS. E di come riuscire a farlo rimanendo all’interno del recinto delle politiche economiche stabilito dai trattati, e mentre l’altro corno del governo promette un abbassamento generalizzato del prelievo fiscale.
Di fronte a questo scenario, e soprattutto di fronte alle aspettative che si sono generate in quella fetta di società che fatica a mettere insieme il pranzo con la cena, le strade da intraprendere possono essere due: o si persegue la via della critica ideologica, mettendosi a fare le pulci a quanto proposto da Di Maio perché gli euro sono pochi, perché il reddito non è universale o perché è condizionato ai programmi di politiche attive per il lavoro, ma rischieremmo di risultare quantomeno poco comprensibili a chi per quei 780 euro si metterebbe in fila già da domani mattina; oppure si pigia il piede sul pedale dell’acceleratore affinché i nodi vengano al pettine. E lo diciamo da chi non ha mai fatto propria la parola d’ordine del reddito. Hai promesso il sussidio? Ora ce lo dai. Non ci sono i soldi? Prendili a chi con la crisi ha fatto i miliardi. L’UE non lo permette? Rompi. Non ci riesci? Ti fai da parte. E se davvero ci riesci e hai bisogno delle nostre 36 ore di lavoro al mese, allora assumici.