Marx in Egitto
E’ evidente che la fase che stanno vivendo determinati paesi arabi è tutta ancora in divenire, dunque non siamo al momento in grado di fare previsioni né a lungo né a breve periodo. Ma quello che fino ad oggi è accaduto nella regione nordafricana è già tantissimo, e crediamo che si possano già fare alcune riflessioni un po’ più generali rispetto alla cronaca quotidiana delle rivolte. Siamo profondamente convinti, tralaltro, della singolarità e della diversità di ogni contesto “rivoltoso”, per cui la Tunisia non è l’Egitto, questi non è la Libia, e tutti questi ovviamente non sono lo Yemen, l’Oman e il Barhein. Ogni entità statale, terreno di scontro fra questi movimenti di protesta e il potere costituito, rappresenta un caso da analizzare a sé. Ma la nostra intenzione in questo momento è un’altra, e cioè quella di individuare quei punti di contatto, quelle similitudini che hanno caratterizzato fino adesso queste rivolte. Capire qual è quel filo che le tiene unite, che le lega. Perché se effetto domino sta avvenendo, vuol dire che nella diversità un filo comune ci dev’essere per forza.
Non entreremo in questo pezzo sulla sincerità o meno di queste rivolte. E’ ancora presto per poterne dare un giudizio di merito sicuro, e soprattutto non è questo il centro del discorso. Non è neanche tanto importante stabilire in quale momento sia avvenuta, se è avvenuta, l’irruzione nel campo di battaglia di poteri forti, stranieri, economici. Sono tutte riflessioni che avremo tempo e modo di affrontare, e saranno sicuramente fondamentali per capire l’evolversi di queste proteste.
Il terreno sul quale vogliamo invece muoverci e indagare in questa riflessione è la dinamica sociale che ha portato a queste rivolte, la composizione sociale delle stesse, nonché le loro forme organizzative. Perché se c’è un dato ormai chiaro, che sconvolge il nostro modo di pensare le cose, è proprio questo: la diversità irriducibile fra quello che noi pensavamo essere possibile e quello che è avvenuto e sta avvenendo in quell’area. Cerchiamo subito di essere chiari e arrivare al punto: quello che è avvenuto in quei paesi ci sembra in netta contraddizione non solo con il pensiero di Marx e con il marxismo, ma addirittura con il leninismo come forma d’organizzazione politica efficace per le masse in vista della presa del potere. Ora, si potrebbe benissimo sintetizzare tutto questo ragionamento con un bel chissenefrega: sarà pure in contraddizione con la teoria, ma è avvenuto, e fino a prova contraria la realtà sta sempre li caparbia a smentire ogni teoria decrepita e superata. Bene, questo può essere vero, ma se lo è cerchiamo di capirlo subito e di rifarci quantomeno la libreria.
Veniamo al dunque: perché queste rivolte smentirebbero così nettamente quanto detto sopra, cioè quella che fino ad oggi è stata considerata da noi comunisti la scienza della presa del potere da parte delle masse?
In primo luogo, perchè non si tratta di rivolte di classe. Al di là delle diversità regionali e statali, tutte le proteste sono caratterizzate dall’essere composte da una moltitudine interclassista di persone che si ribella al potere. Questo ci sembra di poterlo affermare con certezza. Non erano piazze di lavoratori che chiedevano il pane, un aumento degli stipendi, più diritti sul lavoro e via dicendo tutto quello che per due secoli aveva caratterizzato le rivolte di classe. Certo, c’erano anche i lavoratori, è evidente. Ma non erano la componente maggioritaria politicamente, nel senso che non influivano politicamente sullo sviluppo delle rivolte. Erano per così dire accodati, ma non nel senso negativo del termine: erano parte di un meccanismo più grande, e diverso da loro, e una guida politica del lavoro non ha indirizzato questo proteste. E invece, da subito le piazze sembravano essere caratterizzate da una eterogeneità, tanto politica quanto sociale, che però affermava con forza un concetto forte: il problema generazionale. Più che dei lavoratori, o di una qualche altra categoria o classe sociale, queste sono le rivolte di un soggetto preciso: i giovani.
E da questa constatazione ne risulta subito un’altra, che diventa il secondo punto della riflessione: essendo delle rivolte moltitudinarie, interclassiste e generazionali, queste proteste non sono partite dai bisogni materiali ma da urgenze “ideali”. Come detto, al posto del lavoro e di tutto ciò che si porta dietro questa parola, i bisogni ideali impellenti di queste rivolte sono stati: la democrazia, come passaggio necessario, e sentito, rispetto all’oligarchia politica di questi stati; l’abbattimento dei Rais di turno, la fine di regimi fondati sulla corruzione; e poi ancora, la richiesta di libere elezioni, un avvicinamento ideale e materiale all’occidente moderno, visto come il sogno da raggiungere per schiere di giovani bloccati nell’immobilismo di stati-privati, o privatizzati, dal despota di turno. Un bisogno di emergere, di far parte del mondo democratico occidentale, facendo leva sullo strumento della democrazia per raggiungere il benessere degli stati del primo mondo, così vicini eppure così lontani se visti dall’altra sponda del Mediterraneo. Dunque, e questa è veramente un “prima” storica: una serie di rivolte sospinte da una voglia di cambiare le regole di gestione del potere, più che per la conquista di diritti sociali e di un miglioramento delle condizioni di vita. O meglio ancora, un capovolgimento: mentre nelle rivolte storiche le richieste di un miglioramento sociale portavano prima o dopo alla democrazia (o al socialismo), adesso sembrano essersi invertiti i termini: prima vogliono la democrazia, che sarà lo strumento che darà il benessere sociale. Di più, una serie di rivolte che non miravano alla presa del potere, ma all’instaurazione di un regime che potesse consentire anche a questi giovani di partecipare alle elezioni, a possedere una stampa libera, di militare nel partito che si preferiva.
Precisazione: come detto in precedenza, non è che siano assenti anche dinamiche di miglioramento sociale, così come la presenza di lavoratori: è che sono ininfluenti politicamente e socialmente rispetto a quello che sta avvenendo. Non sono loro che guidano queste rivolte, non è la classe lavoratrice che guida questa proteste. Sarà pure un problema di secondo piano rispetto al fatto che effettivamente questo rivolte sono avvenute, ma è un dato storico. La richiesta di democrazia, in tutti i luoghi del mondo in cui sono avvenute rivolte, proveniva dai lavoratori, dai partiti che li organizzavano e dai sindacati che li spalleggiavano. Oggi no, e questo è un dato che dobbiamo tenere a mente.
Terza grande questione sul piatto: ancora oggi, non si è capito che forma organizzativa hanno avuto e stanno avendo queste rivolte. Sembrerebbero, e qui il condizionale è d’obbligo, assolutamente spontanee, non pre-determinate, e soprattutto senza nessuna struttura politica che ne abbia indirizzato le decisioni. Di organizzazioni politiche, anche qui, ce ne sono state, una su tutte i Fratelli Mussulmani. Ma mai hanno avuto un’incidenza su quello che avveniva; nel migliore dei casi, partecipavano al dibattito. Ma questo dibattito come è avvenuto, in che forme, con quali metodi? Davvero possiamo credere che in paesi dove la gente muore di fame c’è un’incidenza così determinante delle nuove tecnologie, e soprattutto dei social network? Non ci è dato saperlo. I media occidentali ci raccontano, esaltandola, una forma di protesta assolutamente pacifica e “movimentista”, senza però nessun movimento organizzato alle spalle. Nessun altro canale d’informazione è in ogni caso intervenuto a smentire tale fatto. Quindi lo diamo per buono, anche se effettivamente poco credibile.
Nel corso della storia di rivolte assolutamente dis-organizzate ce ne sono state a centinaia. Ma tutte si sono risolte nel giro di pochi giorni o in un evidente nulla di fatto, o più facilmente con una brutale repressione senza mezzi termini. E invece questa serie di rivolte, non organizzate, non armate, spontanee e assolutamente orizzontali hanno abbattuto due regimi e si preparano ad abbatterne un terzo. Come è possibile tutto ciò? Se effettivamente le cose sono andate esattamente così, sarebbe la più netta smentita storica al leninismo, al pensiero di Gramsci, all’organizzazione politica comunista come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Nessun problema, però capiamoci, perché se così è, noi dobbiamo adeguarci, e anche in fretta, prima di sparire non tanto dalle rivolte, ma addirittura dalla storia. Senza un’organizzazione politica che funga da avanguardia cosciente della classe, non c’è rivoluzione, diceva Lenin. E tutti ancora lo prendiamo per buono. Una volta era il partito, oggi magari è qualcos’altro, ma quest’avanguardia ci dev’essere, abbiamo sempre pensato. E invece oggi dovremmo avere la prova che non è così. Oggi una rivolta assolutamente priva di qualsiasi forma di coordinamento politico è giunta ad abbattere il potere in ben tre stati. Anche questo dato ci sembra una prima storica abbastanza ingombrante per non tenerne conto.
Per il momento sottolineiamo questi aspetti e cerchiamo di giungere ad una serie di conclusioni, che esponiamo in forma di domanda, proprio perché per il momento è difficilissimo sintetizzare quanto sta avvenendo:
1) Se non sono rivolte di classe dove possono portare? Se la classe non incide con le sue proposte sulle rivolte, e ora nella fase post-rivolta, quali saranno le proposte in campo? E soprattutto, se non sono i lavoratori, chi determinerà i livelli di proposta politica che verranno presi in considerazione?
2) Una rivolta interclassista può avere delle proposte politiche interclassiste, o più probabilmente alla fine la classe che saprà emergere come più forte inciderà sul futuro dei governi?
3) Come è stato possibile che delle rivolte pacifiche siano giunte al potere? Dopo una media di trent’anni di egemonia politica per rais, è davvero possibile che due settimane di mobilitazioni di piazza siano bastate a far crollare regimi appunto ultradecennali e apparentemente fedeli all’occidente?
4) Come è possibile che degli apparati militari apertamente in combutta con i dittatori non ci abbiano pensato un attimo a lasciare il vecchio potere per appoggiare la rivolta dis-organizzata? In Egitto il potere è sempre stato controllato dall’esercito; e più in generale, in tutti questi stati l’esercito rappresenta una casta separata e superiore al resto della popolazione, mediamente benestante e legata a doppio filo col potere. Com’è possibile che abbiano deciso in blocco di “mollare” il potere costituito e la tranquillità della loro egemonia sociale per appoggiare rivolte che in fin dei conti potevano anche finire malissimo?
5) Perché tutto questo va bene per la Tunisia e l’Egitto e non succede in Grecia, tanto per fare un esempio, che ha quasi lo stesso livello di reddito della Libia, ma che in compenso ha una lotta praticamente armata contro il potere, organizzata e cosciente? O non è successo in tutto il resto del mondo, dove è stata la violenza a caratterizzare la presa del potere, o quantomeno la sua parte distruttiva di abbattimento dei regimi, e dove l’esercito è sempre stata la fonte di tranquillità dei governi, consentendo in ultima analisi una repressione militare alle rivolte?
6) Può essere davvero chiamata “rivoluzione” una protesta che non prevede la presa di possesso dei mezzi di produzione, o che in ogni caso non si pone questo come obiettivo a cui aspirare? E che non ha alla base il miglioramento sociale, bensì un adeguamento alle norme democratiche presenti in Europa o negli USA, una richiesta tout court di democrazia senza specificazioni?
Per il momento ci fermiamo qui. Molte altre cose avremmo potuto constatare in queste strane rivolte. Sarebbe interessante cercare di capire se queste riflessioni e queste domande siano condivise anche dal nostro mondo, dai compagni, o se risultano essere questioni di lana caprina, da lasciare in secondo piano rispetto al travolgere degli eventi. A noi ci sembrano indispensabili per capire cosa sta accadendo. Perché capire il passato aiuta ad interpretare il presente, e a non fare errori nel futuro. Il futuro però sono vent’anni che è arrivato, e di errori ne sono stati commessi fin troppi.