…noi la crisi ve la creiamo
da l’espresso.it
Vincenzo, spalle larghe e lingua veloce, lavora alle carrozzerie da vent’anni. Portare la grande croce per una cinquantina di metri non gli ha pesato più di tanto. È fiero di aver messo in scena venerdì, insieme ai suoi compagni, una delle ‘Via Crucis’ più operaiste degli ultimi decenni. Una scelta del parroco don Peppino, che ha voluto le tute blu della Fiat di Pomigliano, i “nuovi crocifissi”, per rappresentare la passione di Gesù. Sono passati quattro giorni dall’evento. Vincenzo riempie i polmoni e sbraita. “Il macigno vero noi lo portiamo dentro. Pomigliano ormai non è più una fabbrica, ma una polveriera. Se i politici e l’azienda non si danno una mossa, qui esplode tutto. Sarà molto peggio della Francia, dei sequestri in Belgio”. È martedì 14 aprile, ma il parcheggio destinato a carristi e lastratori della Fiat è deserto come fosse domenica pomeriggio. Il piazzale delle auto invendute, ordinate a comporre file colorate, è invece pieno come un uovo. La crisi mondiale ha azionato il ralenty alla catena di montaggio che mette insieme i pezzi delle Alfa 147 e 159. I lavoratori sono tutti in cassa integrazione ordinaria. Spenti pure gli schermi al plasma dell’area ristoro, inaugurata poco più di un anno fa. Era stata creata per evitare che gli operai si preparassero il caffè durante il turno: dentro una portiera era stato trovato un bicchierino di plastica sporco. Colpa dell’indisciplina, della bassa produttività e dell’assenteismo: i 5mila dipendenti erano stati costretti a seguire per due mesi un ‘corso di rieducazione’. Vincenzo al solo ricordo schiuma altra rabbia. Poi guarda la fabbrica muta, e si fa cupo. “È una tragedia. Pomigliano è l’ultima cattedrale della classe operaia rimasta in Campania, l’ultimo grande impianto produttivo che genera un po’ di lavoro. Se chiude, è la fine”. Le forze dell’ordine, i sindaci della zona, persino la Chiesa sanno che la santabarbara, in terra di camorra e tassi di disoccupazione a doppia cifra, rischia davvero di saltare. È il punto più sensibile d’Italia, dove la recessione s’intreccia con il disfacimento del patto tra lavoratori, aziende e istituzioni. Il luogo, soprattutto, in cui sindacati e partiti stanno perdendo il tradizionale ruolo di mediatori. Le nuove Brigate rosse l’hanno capito al volo, e stanno tentando di trasformare la vecchia Alfa Sud nel simbolo della lotta contro il capitalismo delle disuguaglianze. “Con tre brutali cariche a freddo”, hanno scritto gli imputati al processo in Corte d’assise a Milano dopo gli scontri sulla ‘A1’ dello scorso febbraio, “le forze della repressione hanno cercato di impedire che la giusta lotta degli operai valicasse i cancelli della fabbrica coinvolgendo la popolazione con il blocco dell’autostrada. Vicinanza e solidarietà agli operai Fiat di Pomigliano, così come a tutte quelle situazioni che lottando non intendono subire passive gli effetti della crisi del capitalismo”. Il pm Ilda Boccassini ha impedito che il comunicato fosse letto in aula, ma non ha potuto bloccarne la divulgazione su Internet: sul sito di Indymedia, su quello di un collettivo antagonista, persino su una pagina dedicata agli ultras è possibile trovare il testo con gli attacchi al governo, al “padronato” e al giuslavorista Pietro Ichino. Pomigliano è un’icona, da sempre. Difficile che oggi i metalmeccanici facciano un tuffo all’indietro negli anni Settanta: le ideologie egualitarie e solidali sono morte, gli operai non sono più, per dirla alla maniera del sociologo Aris Accornero, “macchine per la lotta di classe” come i loro padri. Sono individui, guardano il ‘Grande Fratello’ e ‘Amici’, pensano solo a guadagnarsi ‘la mesata’. “Ma la tempesta sta arrivando lo stesso”, avverte Andrea Amendola, capo della Fiom della città e memoria storica dell’alfismo militante. Tra dipendenti e indotto il vecchio stabilimento fa mangiare novemila famiglie, in tutta la Campania il settore dell’auto occupa oltre 20 mila persone, rappresentando una parte rilevante del Pil regionale. Decine di piccole imprese gravitano intorno alla Fiat dal 1971. L’agonia dei consumi ha gettato tutti nel panico. La produzione è passata dalle 195 mila auto del 2001 alle 60 mila del 2008. Un crollo mai visto. Le stime per quest’anno sono catastrofiche: se il trend non si inverte, si costruiranno in totale meno di 40 mila vetture. “Il fatto è che, a parte la costosa 159, non sono previste nuove linee”, spiega Amendola:”Anche Termini Imerese, che fa solo Lancia Y, se la passa male. A Melfi e Cassino, dove si assemblano la Grande Punto e la nuova 149, respirano ancora”.
In città la ‘caccia al manager’ organizzata dai lavoratori francesi infuriati per tagli e licenziamenti inizia a far breccia nella pianificazione delle proteste. I capifamiglia, quelli monoreddito, pretendono che i sindacati alzino l’asticella della contestazione. Qualcuno spiega che occupare Pomigliano sarebbe inutile, si farebbe solo un favore ai manager di Torino. “Meglio puntare sui capannoni di Melfi”, dicono i più arrabbiati: “Il danno economico sarebbe ingente. Ma per sfondare le porte e conquistare l’edificio servono circa 400 compagni, il blitz va organizzato bene”. Il cellulare dei delegati sindacali squilla in continuazione. Arrivano pressioni, minacce. Persino i duri della Fiom temono per la loro incolumità. La sede dei metalmeccanici è un porto di mare. Arrivano quelli dell’Avio, altra azienda traballante: la divisione che fa revisione ai motori degli aerei ha perso la commessa Alitalia, che ha preferito rivolgersi a una ditta israeliana, la Bedek. Si fanno sentire quelli della Cablauto e dell’ex Selca, che tra pochi giorni rimarranno senza alcun reddito. Il virus della cassa integrazione se lo sono presi anche quelli della Marelli, che costruiscono sistemi di scarico; i compagni della Lear, che montano i seggiolini; la G.M. di Arzano, specializzata nella motorizzazione. Aniello Niglio, operaio di 47 anni, due figlie di 15 e 16 anni da mandare a scuola, un mutuo e qualche debito fatti con il credito al consumo, spiega che il sindacato finora ha fatto da valvola di sfogo alle tensioni. Ma annuncia che “il tempo delle chiacchiere sta scadendo”. L’appello di Paolo Bonolis durante Sanremo per la sopravvivenza dell’impianto, come la solidarietà di Benedetto XVI, è un’operazione mediatica che ha permesso alla vertenza di finire sulle pagine dei giornali, ma i lavoratori si lamentano di aver raccolto, dopo mesi di battaglia, assai poco. Il corso finanziato dalla Regione Campania, importante welfare perequativo voluto da Antonio Bassolino, non è ancora partito, mentre il patto tra Obama e la Fiat per salvare la Chrysler dal fallimento ha ulteriormente esacerbato gli animi. “Marchionne va a prendersi gli applausi a Detroit e abbandona al loro destino gli operai italiani. Bisogna avere il coraggio di dire che le politiche industriali per Pomigliano sono state fal-li-men-ta-ri”. L’ingegnere italo-canadese non ha per ora sciolto le riserve. La berlina 159, unico modello rimasto appannaggio dello stabilimento, non rientra nemmeno tra le vetture agevolate dagli incentivi statali. I politici hanno proposto che il sito si riconverta alle auto verdi ultraecologiche, ma per ora nessuna decisione è stata presa. Anche il prefetto Alessandro Pansa ammette di essere preoccupato: “Questa è l’unica area industriale importante della provincia. L’età media degli operai Fiat, poi, è bassissima: trentasei anni. Non è un caso che Berlusconi in persona abbia incontrato i lavoratori per più di un’ora”. Nel faccia a faccia il premier ha promesso di impegnarsi nella vicenda “con la testa e con il cuore”. Si è preso gli applausi appena ha parlato di un (difficile) prolungamento della cassa integrazione, ma qualcuno ha storto il naso quando, puntando l’indice sulla pancia straripante di un delegato della Fim-Cisl, il Cavaliere gli ha prima intimato una dieta ferrea, poi ha dichiarato alla platea che lui, se fosse licenziato, si rimboccherebbe le maniche. Il miscuglio di rabbia e indignazione che ribolle nel ventre della città non si vede in superficie. Esclusi sei giorni di lavoro al mese gli operai se ne stanno in famiglia, o ciondolano per le strade. “Qualcuno cerca di arrotondare lo stipendio, ridotto a 7-800 euro, con qualche lavoretto in nero, ma certe nicchie sono ormai monopolizzate da africani e rumeni”, dice Giuseppe Saccoia, in catena di montaggio da quasi 35 anni. Se i giovani non torneranno presto a indossare le loro tute da Cipputi, dice, rischieranno di finire intrappolati nelle maglie della camorra. Il prefetto getta acqua sul fuoco. “Il sistema non ha mai reclutato operai, figuriamoci quelli della Fiat. A Pomigliano i rischi veri”, conclude Pansa,”sono l’indebitamento, il boom dell’usura, l’infiltrazione della criminalità nelle piccole imprese”. L’operaio Saccoia scuote la testa e sorride amaro. Dice che è sempre stato legato alle istituzioni, al sindacato, ai partiti. Stima il presidente Giorgio Napolitano, che ha votato quando era candidato a Bagnoli. Oggi racconta che se tutto andrà in malora anche lui si unirà alla lotta. “Io ancora oggi credo in una democrazia compiuta. Ma voglio proprio vedere quale giudice avrà il coraggio, dopo che sono stato mortificato come uomo e come lavoratore, di dirmi in faccia che sono un terrorista”.