O fato il piano squola (sapevatelo)
La scuola pubblica non produce profitti, lo sappiamo. Certo, in prospettiva la formazione di una forza-lavoro con maggiori capacità e competenze, quello che eufemisticamente chiamano “capitale umano”, potrebbe tradursi in un aumento complessivo della produttività del sistema economico, ma è anche vero che nel lungo periodo, come ricordava qualcuno, saremo tutti morti. E poi ormai il Capitale oltre che miope, nel senso che non riesce per sua natura a guardare troppo lontano, è pure compiutamente transnazionale, si muove agilmente e liberamente fin là dove l’interazione dei diversi fattori produttivi gli garantiscono le migliori condizioni d’investimento e, dunque, non è più nemmeno così rigidamente vincolato a un territorio o a uno stato in particolare, né alla sua manodopera.
Questo spiega perché, di controriforma in controriforma, per il padronato e per la classe politica che lo rappresenta, la scuola (pubblica) si sia ormai ridotta a un costo da contenere, un segno “meno” nei registri contabili di cui si fatica a comprendere l’utilità. E il diritto allo studio, che proprio attraverso la scuola pubblica dovrebbe essere garantito a tutti e tutte, è così finito con l’essere derubricato a uno di quei tanti retaggi delle lotte sociali novecentesche, un fastidioso orpello da cui prima o poi proveranno definitivamente a liberarsi, magari, come sta accadendo in questi mesi, anche cogliendo la palla al balzo dell’emergenza virus.
Del resto la nuova divisione internazionale del lavoro sembrerebbe sospingerci sempre di più verso produzioni industriali a basso valore aggiunto e, soprattutto, verso un terziario arretrato fatto di servizi alla persona, ristorazione, turismo, call center, logistica, rider, eccetera eccetera. Nella “società signorile di massa” tratteggiata recentemente dal sociologo Luca Ricolfi, che te ne fai di una classe lavoratrice sovraformata? Investire in edilizia scolastica, professori e infrastrutture non rappresenta dunque uno spreco di risorse? E poi, male che vada, se qualcuno vuole proprio sapere qualcosa c’è sempre l’oracolo di Google a cui rivolgersi. Crediate si tratti di un’iperbole o di una boutade? Mica tanto. In un’intervista rilasciata lo scorso 8 maggio al Corriere della Sera Patrizio Bianchi, rettore dell’Università di Ferrara e capo della fantomatica task force istituita dal Ministero dell’Istruzione, ha detto chiaramente: “bisogna dare spazio ad un insegnamento più informale (…) una volta per sapere chi fosse Carneade bisognava leggere Manzoni, oggi basta prendere il telefonino. Voglio dire che non ci mancano le informazioni ma quello che non sappiamo è usarle bene”.
Ah se solo Don Abbondio avesse avuto uno smartphone a portata di mano!!!
Se questo è il frame in cui viene “ripensata” la scuola ai tempi del coronavirus non stupisce allora che nel periodo dell’emergenza epidemica di tutto si sia parlato tranne che dei quasi 8 milioni di studenti a cui, per oltre tre mesi, di fatto non è stato garantito il diritto allo studio e che, cosa ancor più grave, rischiano di vederselo limitare anche per il prossimo anno scolastico.
Le (goffe) capriole (poco) logiche della ministra Azzolina, a cui ci è stato dato di assistere in questi mesi, sono, da questo punto di vista, il riflesso più cristallino di questo sostanziale disinteresse (nonché la misura dell’insipienza della ministra stessa) e meritano di essere messe brevemente in fila per lasciarle bene impresse nella memoria.
La ministra a febbraio aveva assicurato che, nel caso l’epidemia fosse arrivata anche in Italia, la scuola “si sarebbe fatta trovare pronta”. Una dichiarazione improvvida che purtroppo, per essere onesti fino in fondo, in quei giorni veniva ripetuta come un mantra un po’ da tutta la classe politica italiana. I tragici risultati di queste granitiche certezze sono sotto gli occhi di tutti per cui, almeno in questa sede, evitiamo di infierire.
A inizio marzo il mood era già cambiato, l’unica certezza era che il virus era arrivato anche in Italia, ma si coltivava l’illusione di una sua rapida eradicazione sulla scorta del modello cinese. Per cui, dopo il balletto “scuole chiuse si, scuole chiuse no” del 4 marzo, e la fuga di notizie a mezzo stampa, dal ministero hanno iniziato a dare i numeri: “scuole chiuse fino al 15 marzo” (4 marzo), “chiusura fino al 3 aprile” (9 marzo), “verso la proroga della chiusura oltre il 3 aprile” (19 marzo), “scuole chiuse sicuramente fino al 13 aprile” (1 aprile) fino alla resa del “quest’anno non si torna in classe” (17 aprile) e all’istituzione di una (ennesima) task force per elaborare un piano scuola in vista del prossimo settembre.
A questo punto, una volta che anche nel Paese la narrazione ufficiale è virata dal belligerante “spezzeremo le reni al Covid” a un più mesto “dovremo convivere col virus”, almeno fino a quando non avremo un vaccino, da Viale Trastevere hanno smesso di indicare date e si sono messi a elaborare fantasiose ricette per il futuro. Il 2 maggio la ministra ha esordito spiegando agli italiani che da settembre si sarebbe tornati in classe grazie alla “bi-scuola”, un’idea evidentemente rubata al mitico Oronzo Canà de “L’allenatore nel pallone”. Metà delle classi sarebbero tornate in aula, mentre l’altra metà avrebbe seguito da casa grazie alla didattica a distanza. Ora, sulla natura intimamente classista, escludente e discriminatoria della “scuola da remoto” andrebbe fatto un ragionamento a parte, ma è apparso subito chiaro anche ai più ferventi sostenitori del digitale, quanto l’idea fosse impraticabile. Prima di tutto insegnare “in presenza” è una cosa, “insegnare” su Zoom o Google Meet è un’altra, farlo contemporaneamente è impossibile. Secondo poi, questa “soluzione” rischiava di tradursi in un incubo organizzativo per migliaia di famiglie con bambini non autonomi (elementari e prime classi delle medie) che non potevano certo essere lasciati a casa da soli davanti a un monitor mentre i genitori andavano “tranquillamente” a lavorare.
Si è passati così alla “scuola a scaglioni”. Questa volta il piano geniale elaborato dalle fervide menti degli esperti prevedeva l’ingresso scaglionato delle classi ogni 15 minuti, ovviamente previa misurazione della temperatura. Un’idea partorita da chi, evidentemente, ha scarsa dimestichezza con la scuola reale o con la matematica, o con entrambe le cose. Grazie alle continue “razionalizzazioni” e agli accorpamenti di questi ultimi anni, molti Istituti, soprattutto nelle scuole superiori e nelle grandi città, contano ormai decine di classi. A Roma, per fare un esempio, per far entrare tutti gli studenti di un liceo di media grandezza (60 classi) utilizzando questo metodo (4 classi ogni ora) servirebbero ben 15 ore.
Accantonata, speriamo, anche questa brillante idea si è così passati alla “scuola tetris” con la ricerca della possibile soluzione al dilemma nella disposizione dei banchi a “nido d’ape” o a “scacchiera” e distanziati tra loro di almeno 2 metri. Anche in questo caso entrano però in gioco i numeri della scuola reale. In Italia per l’attuale anno scolastico si contano 369.769 classi di ogni ordine e grado, suddivise in 40.749 sedi scolastiche e con una media di 20,5 studenti per classe. Già così per rispettare il distanziamento servirebbero aule di almeno 80 metri quadri. Ma i numeri, come dovrebbe sapere chiunque abbia frequentato una scuola vera almeno una volta nella vita, variano enormemente da regione a regione e da città a città. La riforma Gelmini prevedeva fino a 30 alunni per classe alle elementari e alle medie e fino a 33 alle superiori, mentre per le prime classi, sempre delle superiori (circa 30mila), è stato stabilito addirittura un numero minimo di 27 studenti.
A questo punto, dal cilindro della Azzolina, è stato tirato fuori il coniglio della “scuola fuori dalla scuola” con la possibilità di adoperare pro tempore palestre, teatri, sedi di associazioni e quant’altro potesse essere utilizzato come aula alternativa, scaricando, però, sui presidi la responsabilità di reperire “in autonomia” queste nuove risorse.
A settembre saranno passati 7 mesi dall’inizio dell’epidemia, un periodo di tempo troppo lungo perché si possa ancora parlare di “emergenza”. Se, come ci è stato detto, dovremo imparare a convivere con il virus, allora dobbiamo imporre che la loro “nuova normalità” non si traduca in una ulteriore negazione dei nostri diritti sociali. In questi giorni stiamo leggendo di miliardi di euro da destinare alle imprese perché possano ricominciare a fare profitti, mentre invece servirebbero investimenti strutturali e permanenti per il diritto allo studio, come per quello alla salute o a una mobilità sostenibile. Per tornare in classe in sicurezza servono più aule, più manutenzione, più maestre e maestri, più professoresse e professori e più personale non docente. Questo è il “piano scuola” di cui abbiamo bisogno, perché, come scriveva Josè Martì: essere colti è l’unico modo per essere liberi!