Obama, Fidel e la stampa italiana

Obama, Fidel e la stampa italiana

convitato-di-pietro

da cdr-roma.org

Si è da poche ore concluso a Trinidad e Tobago il vertice delle Americhe e la descrizione più calzante l’ha fatta sicuramente Maurizio Matteuzzi sul Manifesto di qualche giorno fa quando ha scritto che questo è stato “un vertice senza Cuba, ma con Cuba al vertice”. Raul e Fidel, ma soprattutto la Revoluciòn, con tutto quello che significa e che evoca in America Latina, sono stati i convitati di pietra di un incontro che ha visto tutti i capi di stato chiedere a gran voce al neopresidente Obama la fine del blocco economico che da mezzo secolo strangola l’economia cubana. La centralità del tema era del resto ampiamente prevedibile e anticipata dalla sequenza di presidenti che negli scorsi mesi hanno visitato La Habana (leggi), così com’era altrettanto prevedibile che Obama facesse qualche pur timida apertura. Il presidente USA, del resto,non poteva certo pensare di ricucire i rapporti con l’ex patio trasero presentandosi a mani vuote. Soltanto la miopia dei media italiani, quindi, poteva ignorare tutti questi segnali dimostrandosi come al solito pressappochista quando non in malafede. Ma su questo torneremo dopo. Ora, cosa cambia realmente per Cuba? Per il momento poco o nulla. La possibilità di viaggiare per i cubani residenti negli States così come la possibilità di inviare denaro riportano indietro le lancette all’epoca della presidenza Clinton quando comunque l’interscambio politico, scientifico e sportivo era maggiore di quello prospettato da Obama, almeno fino a oggi. La realtà è che l’entourage del presidente statunitense si è reso conto che la via militare alla distruzione della rivoluzione socialista è clamorosamente fallita. Con la caduta del blocco sovietico chi continuava a sostenere che Cuba fosse un satellite dell’URSS si era anche convinto che senza il potente alleato bastasse una spallata per buttarla giu. Non è un caso, infatti, che il blocco proprio in quegli anni subisce una recrudescenza con la legge Helms-Burton, la legge Torricelli e con l’istituzione della Commissione di Appoggio ad una Cuba Libera. Così come non è casuale che la prima presidenza Bush coincida col tentativo di destabilizzazione “umanitaria” interrotto dai 75 arresti del 2003 che fecero gridare alla violazione dei diritti umani i media occidentali. Altro che dissidenti, però, quando si dimostra che vengono percepiti migliaia di dollari da una nazione nemica per provocare sommovimenti popolari ed emergenze umanitarie che giustifichino poi l’intervento militare la parola più appropriata è mercenari. Fantapolitica? Ve lo ricordate cosa è successo nei balcani? Ve li ricordate i notiziari che parlavano del genocidio dei kossovari, delle fosse comuni, delle città ridotte alla fame? Qualcuno li ha mai visti, ovviamente no, perché erano una montatura necessaria per legittimare i bombardamenti anche senza le risoluzioni dell’ONU. Nonostante tutto questo, però, Cuba pur fra mille difficoltà ha retto dando luogo ad un “miracolo” politico non ancora sufficientemente indagato dalla sinistra e dal movimento comunista. E la sua resistenza, che se non avessimo paura di apparire retorici potremmo definire eroica, è stata condizione essenziale per la cosiddetta primavera latinoamericana. Questo dato di fatto è ormai accettato anche dagli anticastristi più incalliti e dagli analisti nordamericani che si trovano nella condizione di provare a cambiare strategia puntando su una “transizione morbida” sul modello delle rivoluzioni arancioni. Sarebbe veramente da ingenui credere che Obama possa rappresentare una vera svolta nella politica statunitense, e soprattutto significherebbe non aver per nulla compreso come funziona il (bi)partito unico del Capitale, abboccando alla favola della rappresentanza. Comunque, l’idea neanche troppo velata della nuova amministrazione è che l’afflusso massiccio di dollari e turisti nordamericani possa riuscire laddove i sabotaggi e gli attentati hanno fallito. Il consumismo come un virus in grado di minare dall’interno l’edificio rivoluzionario e le sue conquiste sociali. Le domande da porsi allora sono essenzialmente due: i cubani sono consapevoli di questo rischio? Ovviamente si, ci mancherebbe altro, e sinceramente ci fanno sorridere tutti quei compagni che dall’alto di una rivoluzione mai fatta e mai neppure tentata si affannano a cercare di spiegare come si fanno le cose a chi da 50 anni sta costruendo il socialismo a sole 90 miglia marine dall’impero. Non a caso uno degli sforzi maggiori compiuti dalla rivoluzione è stato fatto nel campo dell’istruzione, un settore considerato strategico tanto che gli investimenti sono addirittura aumentati durante il periodo especial. Ci spiegava un compagno cubano che ora l’isola si trova impegnata nella terza fase del suo progetto educativo: la generalizzazione del livello universitario. Dopo la campagna contro l’analfabetismo del 1961 e dopo l’universalizzazione del livello secondario, Cuba punta ora a massimizzare il numero di cittadini laureati attraverso una diffusione capillare degli atenei anche nei municipi più isolati. Come a sottolineare che saranno proprio la cultura e la coscienza sociale gli antidoti alle sirene del mercato globale con cui l’isola dovrà comunque confrontarsi. E’ ridicolo, infatti, chi pensa o dipinge l’isola come isolata dai flussi comunicativi internazionali. Le giovani generazioni cubane non solo vengono a contatto con oltre due milioni di turisti all’anno, non solo possono accedere alla rete, ma sono soggetti ad un bombardamento mediatico pressoché costante di trasmissioni radiotelevisive dalle emittenti anticastriste con base in Florida. La seconda domanda, però, è quella forse più importante e a cui solo il tempo potrà dare una risposta: Cuba riuscirà a vincere anche questa sfida o verrà lentamente omologata? Per quanto ci riguarda siamo pronti a scommettere che il Granma continuerà a solcare i mari e a rovinare il sonno agli imperialisti per molto tempo, ma, come dicevamo, saranno i prossimi anni a dire se avevamo ragione o meno. Ma torniamo alle miserie intellettuali che ci circondano. Com’era prevedibile i giornali italiani hanno dato un’ampia eco al “disgelo” tra Cuba e USA e com’era altrettanto prevedibile hanno brillato per sciatteria informativa. Negli ultimi giorni hanno intervistato esclusivamente “dissidenti” o riportato le dichiarazioni dell’amministrazione USA, mentre non hanno sentito il bisogno di chiedere un commento ai rappresentanti del governo o a esperti di cose cubane vicini alla rivoluzione. Insomma, quando si (s)parla di Cuba delle due campane non ce ne frega niente, si da spazio solo a quella a stelle e strisce. La cosa è deontologicamente tanto più imbarazzante se ci si prende la briga di leggere da dove vengono fatti i servizi. Il Corriere della Sera, ad esempio, non ha sentito il bisogno di inviare un proprio giornalista a seguire i lavori del vertice e Paolo Valentino scrive i suoi due lunghi articoli pieni zeppi di aneddoti da..New York. Ora, o il giornalista del Corriere ha il dono dell’ubiquità, oppure i suoi pezzi sono costruiti sugli articoli di qualche collega nordamericano o sulle agenzie di stampa. In entrambe i casi non fa che ripeterci fatti ed opinioni dette da altri spacciandole per sue. Il comportamento de La Repubblica è, se vogliamo, ancora più scorretto visto che spaccia i suoi giornalisti per inviati quando in realtà scrivono da Miami o da New York. Se poi l’analisi della società cubana è affidata a qualche esule bilioso che non vede l’isola da 30 anni, il cerchio si chiude e si capisce bene perché ogni analisi o previsione venga puntualmente sbagliata.