Pakistan: risalire ai complici…
Qualche settimana fa avevamo scritto della strage di lavoratori in una fabbrica tessile pakistana. Dopo neanche un mese è venuto fuori che le tracce di sangue che partono da Karachi arrivano fin qui da noi, permettendo così di individuare i complici italiani del padrone che costringeva centinaia di operaie a lavorare in condizioni inumane per pochi spiccioli. Questo a ulteriore dimostrazione, semmai ce ne fosse bisogno, che il mondo è davvero “uno” e che ciò che coinvolge i lavoratori di altri paesi coinvolge materialmente anche noi. E che dunque l’internazionalismo non può essere considerato alla stregua di un vuoto afflato ideologico, ma dev’essere visto come un dovere imprescindibile. Di seguito riproponiamo l’interessante articolo pubblicato oggi da popoff.globalist.it.
E’ successo l’11 settembre scorso: la tragedia di 300 operai, in Pakistan, è stata oscurata – anche se certamente nessuno avrebbe transennato le edicole – dalle spaventose rivolte in Libia e poi nell’intero mondo arabo a causa del famoso “film blasfemo” sulla vita di Allah.
Molto più concretamente nella Ali Enterpraise che produceva jeans per l’esportazione, quel giorno morivano bruciate 286 persone. E’ stata la tragedia di questo tipo più grande nella storia del Pakistan. E con impressionanti somiglianze con l’incendio dell’8 marzo 1908 alla fabbrica Cotton di New York, che secondo alcune fonti ha dato vita alla festa delle donne. Anche lì morirono per un incendio 129 operaie che erano state chiuse all’interno dal padrone della fabbrica. E anche nel caso della Ali Enterprise, a quanto pare, i padroni avevano sbarrato la porta metallica della fabbrica per costringere gli operai a portare fuori tutti i beni dell’azienda prima di cercare una fuga. Solo che succedeva più di cent’anni dopo.
In Pakistan questa storia ha avuta una grande eco, ci sono state molte manifestazioni e della faccenda si sta occupando anche il sindacato nazionale. Ma adesso la storia riguarda anche l’Italia.
E’ stato scoperto, infatti, che la Ali Enterprise solo un mese prima dell’incendio aveva ricevuto la certificazione SA8000, che assicura il comportamento eticamente corretto della fabbrica. E’ una delle tante “carte” che vengono richieste dagli standard internazionali. E che permettono alle fabbriche dei paesi extraeuropei e extra Stati uniti di poter commerciare con il “nord”. Ma ecco come funziona: evidentemente le certificazioni vengono concesse senza controllare troppo. E a dimostrarlo ci sono 300 cadaveri.
Ma non solo: perché quella carta era stata rilasciata da una società di certificazione italiana, la RINA, il Registro italiano navale Group, accreditato presso la SAAS (Social Accountability Accreditation Services), che a sua volta è correlata con la Sai – che ha sede a New York – e che essendo la Social Accountability internazionale è la responsabile ultima di tutte le certificazioni sociali che vengono distribuite (non si sa come, a questo punto) in giro per il mondo.
E’ successo uno scandalo? Si sono dimessi tutti i capi della varie strutture? Sono state risarcite con mille scuse e tanta vergogna le famiglie delle vittime? Neanche per idea. Anzi. Tanto la RINA, che la Ssas che la Sai non stanno collaborando con le famiglie delle vittime, tengono nascosti per motivi di “privacy” i nomi di chi comprava i jeans da quella fabbrica, in modo che le famiglie possano chiedere i risarcimenti, dicono che stanno facendo “indagini” e nel frattempo stanno ben attenti a non fare trapelare nulla. Alla faccia della “certificazione sociale”.
Il comportamento delle Società di certificazione è finito sotto la lente di ingrandimento non soltanto della Federazione nazionale dei sindacati pakistana, ma anche di quella vasta galassia di organizzazioni che ha dato vita a livello internazioanle alla Campagna “abiti puliti” che ha, tra l’altro, convinto diversi grandi marchi di jeans a desistere dall’ultizzare la tecnica di “sabbiatura” per dare l'”effetto usato” ai jeans ma che contemporaneamente condannava alla silicosi gli operai.
La Clean Clothes Campaign (CCC), il Worker Rights Consortium (WRC), il Maquila Solidarity Network (MSN), l’International Labor Rights Forum (ILRF) insieme al National Trade Union Federation Pakistan (NTUF) stanno chiedendo dunque a gran voce alla Sai e alla Ssas di “rilasciare le informazioni in loro possesso”, scrivono in un comunicato. E tanto per far capire a chi è stata rilasciata la certificazione, aggiungono: “La fabbrica non era legalmente registrata presso il governo del Pakistan e non aveva assunto la maggior parte dei lavoratori con contratti di lavoro regolari. L’enorme bilancio delle vittime è il risultato di inadeguate uscite di sicurezza, scale bloccate e finestre sbarrate, che hanno impedito la fuga di molti lavoratori dall’incendio”. Nessuno se ne è accorto. Anzi, la domanda è: ma quando si rilasciano queste certificazioni, qualcuno va a guardare?
Comunque, ora, l’urgenza è che le famiglie delle vittime possano essere risarcite. In una risposta a una lettera della coalizione dei gruppi internazionali per i diritti dei lavoratori, Sai e Saas hanno però negato ogni responsabilità per l’incendio, e, dice ancora il comunicato, hanno opposto “un vincolo alla segretezza come ragione per la quale né loro né la società di revisione italiana, RINA, possono condividere tutte le informazioni di cui dispongono sulla fabbrica . Essi sostengono che sia RINA che Saas stanno compiendo delle indagini, ma si rifiutano di condividere le loro informazioni con i rappresentanti dei lavoratori in Pakistan”.
“I terribili eventi dell’11 settembre mettono in evidenza le debolezze del sistema di certificazione SAI, che ha gravemente deluso chi avrebbe dovuto proteggere”, ha detto Deborah Lucchetti della Clean Clothes Campaign italiana. “Se SAI vuole mantenere un minimo di credibilità deve far cadere il velo della segretezza dietro cui si è attualmente nascosta e iniziare a cooperare con quei soggetti che chiedono giustizia per le vittime dell’incendio alla Ali Enterprises”.
Nasir Mansoor dalla National Trade Union Federation in Pakistan ha dichiarato: “È incredibile che importanti aziende di abbigliamento e gli enti di accreditamento nascondano il loro coinvolgimento nella fabbrica Ali Enterprises o neghino la loro responsabilità nell’incendio. Le famiglie dei lavoratori deceduti e feriti meritano piena trasparenza in merito al ruolo delle organizzazioni di controllo, che hanno dato un certificato di buona salute per la sicurezza della fabbrica, e dei marchi che sono stati in grado di fare profitti a discapito della sicurezza dei lavoratori.”
Proprio in questi giorni – ieri e oggi – l’Advisory Board della sai sta tenendo una riunione in Italia, a Bologna.
di Cinzia Gubbini